martedì 6 dicembre 2016

Leon Spinks v/s Alfio Righetti

Las Vegas - 18 novembre 1977

 
 
Nel Nevada, al Caesar Palace Di Las Vegas  quella sera di metà novembre si disputò l'incontro tra il predestinato pugile americano Leon Spinks e il nostro campione italiano dei pesi massimi Alfio Righetti. In palio non c'era la cintura di nessun titolo, ma questo match valeva tantissimo: in palio c'era Alì......


Leon Spinks nasce a St.Louis l' 11 luglio 1953 ed è nel Missouri che inizia a diventare un pugile.
Dilettante formidabile, tre volte campione nazionale '74-'-75-'76, è medaglia di bronzo nella prima edizione dei campionati mondiali dilettanti a L'Avana 1974 e nel 1975 è medaglia d'argento ai giochi panamericani del 1975, ma il suo capolavoro lo compie alle olimpiadi di Montreal 1976 dove vince la medaglia d'oro dei pesi mediomassimi. A riportarsi a casa la medaglia d'oro in quella rassegna olimpica ci fu' anche il fratello, quel fuoriclasse di Michael, di tre anni più giovane, che vinse nei medi. Leon Con un record impressionante di 178+ (133ko) 7-, il 15 gennaio 1977 esordisce professionista con una rapida vittoria per ko. Non è un errore di trascrittura ma Spinks quando salì sul ring del Caesar Palace di Las Vegas per un match che poteva dargli la possibilità di combattere per il titolo mondiale dei pesi massimi WBA e WBC non aveva ancora terminato il suo primo anno da professionista. Ma lui era un predestinato ed anzi se non ci fosse stato un piccolo intoppo nella sua breve carriera da pro non avrebbe neanche avuto bisogno di superare questo ostacolo per battersi per il titolo. Infatti dopo l'esordio vincente in quel 1977 di vittorie prima del limite ne arrivarono altre quattro ma il 22 ottobre contro il roccioso connazionale Scott Le Doux, arrivò un pareggio che lasciò non molte perplessità. Le Doux era comunque un buon massimo, discreto picchiatore con un record allora di 21+ (13ko) 6- (3ko), galleggiò poi, tra più alti e che bassi sempre tra i  primi dieci posti delle classifiche mondiali della categoria di quegli anni, tanto da guadagnarsi tre anni dopo la sfida del mondiale WBC, dove trovo la paletta dello stop alzata e perse prima del limite con un grandissimo peso massimo degli anni ottanta: Larry Holmes.
Ma per l'ex caporale dei marines Leon Spinks, che aveva prestato tre anni dal 1973 al 1976 nel prestigioso corpo militare americano, prima di passare professionista, era arrivato il tempo di raccolto, dopo aver seminato tanta gloria nei dilettanti. Con Le Doux poteva essere stata una serata storta ed ora bastava abbattere quest'italiano, a lui sconosciuto, e presentarsi all'incasso con un match del calibro di una leggenda vivente come Ali'....Ma l'italiano Alfio Righetti aveva attraversato l'oceano con gli stessi pensieri e propositi, bisognava liberarsi di questo giovanotto americano, spaccone, borioso e ritenuto sopravalutato e poi incontrare in un match che sarebbe, con qualsiasi risultato finale, diventato indimenticabile.

 
 Alfio Righetti nasce a Montecolombo in provincia di Forlì il 18 settembre 1952 e dopo un periodo da dilettante senza grandi acuti passa professionista il 18 maggio 1974 con una vittoria prima del limite. Nel 1974 altre quattro vittorie. Nel 1975 saranno otto le vittorie e nel 1976 ancora nove successi e i suoi match fanno da sottoclou a due titoli europei il primo il 4 giugno 1976 a Milano dove il povero Angelo Jacobucci conquista il titolo europeo dei pesi medi sconfiggendo ai punti il britannico di origine giamaicana Bunny Sterling. Lo sfortunato pugile di Terracina morirà per le conseguenze di un incontro durissimo perso contro un altro britannico: Alan Minter, nel tentativo di riprendersi quel titolo europeo che aveva perso alla prima difesa. Il secondo per Righetti a Roma quando il caraibico di cittadinanza britannica Maurice Hope, sconfisse il nostro Vito Antuofermo per kot alla quindicesima ripresa (vedi post precedente). E cosi a ventiquattro anni, imbattuto con ventidue vittorie (13 ko) il 5 marzo 1977 conquista il titolo italiano ai punti contro il corregionale Dante Cané di dodici anni più vecchio. Non un fenomeno ma un beniamino nazionale, che due anni prima aveva fallito il tentativo europeo, sconfitto per ko dal britannico Joe Bugner (vi ricorderete il biondo enorme che faceva la parte del cattivo in un paio di film di Bud Spencer), e che da dieci anni era ai vertici nazionali e dopo questo match, quasi due anni dopo, con una striscia di un pareggio e tre vittorie si guadagnerà una nuova sfida europea. Sfortunata anche questa dove finirà ko alla quarta ripresa con il detentore lo spagnolo di origine uruguaiana Alfredo Evangelista. Righetti con questa vittoria e con quella precedente contro un altro beniamino nazionale (si sa nella boxe i massimi si prendono tutta al scena, un po' come gli attaccanti nel calcio) Giuseppe "detto Bepi" Ros, trevigiano, trentaquattro anni, con una discreta carriera ma che era ormai sulla via del tramonto, Righetti aveva affermato la sua supremazia nazionale. L'altro giovane peso massimo emergente Lorenzo Zanon era stato messo un po' in ombra dalla sconfitta nel titolo italiano con Cané (di Zanon ci occuperemo in seguito).
Il fresco titolo italiano conquistato nella primavera del 1977 andava stretto ad Alfio Righetti che lasciò dopo averlo difeso una volta nel maggio di quello stesso anno. Rocco Agostino uno dei più importanti manager italiani ed europei dell'epoca aveva per primo intuito le potenzialità di questo colosso romagnolo. Tre vittorie nel giugno, settembre e ottobre con tre avversari, un britannico e due americani,, niente di particolarmente irresistibile, ma nomi esotici che creavano appeal e due si erano svolti in un palcoscenico importante come Roma avevano portato a 27+ (14ko) il suo record e avevano condotto Righetti su quell' aereo direzione Las Vegas che poteva diventare una testa di ponte contro un obiettivo più grande, l'ultimo ostacolo tra lui e la gloria......
Prima di passare all'incontro in questione bisogna fare una doverosa premessa e raccontare come si era arrivati a questa semifinale mondiale che in realtà non era ufficiale perché le semifinali ufficiali si disputavano sui 12 round e questo era sui 10. Era il frutto di un accordo  tra Bob Arum, uno dei due padri-padroni della boxe USA dell'epoca e quindi mondiale, (l'altro era Don King), Rocco Agostino e i manager di Leon Spinks.
Ali' che nel 1977 aveva trentacinque anni, più lento e appesantito, non era quel formidabile campione di qualche anno prima. Le voci su un suo possibile ritiro si rincorrevano sempre più frequenti ed Arum voleva cercare di monetizzare ancora al massimo ogni possibile incontro, perché poteva essere l'ultimo di  una carriera da leggenda.
A questo punto permettetemi una digressione personale: in questo blog non troverete mai un post su Muhammad Ali', ma solo brevi cenni di riflesso ad integrare qualche altro incontro in questione. Perché? Perché per parlare di Ali' ci vogliono i "titoli", non è che io ne abbia per parlare di fuoriclasse come Ray Leonard, Tommy Hearns, Marvin Hagler, Mike Tyson, Roy Jones, Julio Cesar Chavez, Evander Holyfield e tanti altri, ci mancherebbe, ma è una questione di pudore personale. Ali è diventato campione mondiale la prima volta battendo Sonny Liston quando io ero nato da due giorni, con Sugar Ray Leonard ad esempio è diverso, lo conoscevo che era ancora un dilettante, quando trionfo' nei superleggeri alle olimipiadi Montreal 1976, e ne ho seguito la carriera professionistica, con i limiti dell'informazione di allora, fin dal primo incontro. E' come per un ragazzo nato nel 1990 parlare di Maradona e di Messi.
Torniamo ora alla vicenda in questione. Come scritto Alì era a caccia di qualche ultimo "comodo" avversario e Agostino aveva fatto un capolavoro. Infatti era riuscito ad accordarsi con l'entourage di Alì per una difesa volontaria contro il nostro Alfio Righetti. Clamoroso! Immaginatevi cosa poteva essere allora per un italiano battersi per il titolo mondiale dei pesi massimi contro Muhammad Ali, la leggenda. Ma Bob Arum a cui spettava il compito di organizzarlo, tirare fuori la grana insomma, aveva più di una perplessità. Gli piaceva quel ragazzone romagnolo che aveva più di una caratteristica per entusiasmare gli sportivi americani, era imbattuto, aitante, ideale per interpretare la parte del duro in un film, e soprattutto ne aveva un'altra molto apprezzata nei pesi massimi: era bianco.......Infatti quello della "speranza bianca" parola deontologicamente assurda oggi, era un tormentone nato nei primi anni del 1900, quando Jack Johnson, figlio di schiavi affrancati del profondo sud, aveva avuto l'ardire di non accontentarsi del campionato mondiale dei massimi riservato ai pugili di colore, ma di conquistare anche quello assoluto. Quel Johnson non era ossequioso, non stava al posto suo, era sfrontato, borioso, sperperava i soldi, inaccettabile agli occhi beceri dell'opinione pubblica dell'epoca e andava punito. E fecero ed inventarono di tutto per strappargli quel titolo che imprudentemente gli avevano dato lo possibilità di conquistare. E così nacque il detto "speranza bianca", cioè quel pugile in grado di spazzare via lo "zio tom" campione di turno. Certo con Ali' le cose erano cambiate, troppo carismatico, universale, lui era il campione di tutti, ma chi ha avuto la fortuna di vedere il film: "quando eravamo re" non può essergli sfuggita la scena in cui Ali' circondato d'ammiratori, filmava autografi, quando si rivolge ad uomo a cui ha appena firmato l'autografo "Ehi tu hai figli?" . Questi annuisce "si, uno piccolo". E Ali' "e gli dirai quando crescerà che quest'autografo te l'ha firmato un negro!" - "Un negro che è il più grande pugile di tutti i tempi!". L'ammiratore visibilmente imbarazzato nell'allontanarsi e con voce tremolante "si...si...certo campione...!" Alì era troppo intelligente per non capire che dietro la facciata entusiastica di tutti, in maniera latente c'era sempre in America dove i pugili afroamericani erano la maggioranza ma demograficamente nel paese sempre una netta e discriminata minoranza, la voglia di vedere cadere un campione dei massimi di colore ,ed anche se quel pugile era straniero, non era poi così importante.
Ma a Bob Arum di discriminazioni sociali interessava il giusto, proclami da dare in pasto ai giornalisti per confezionare un prodotto vincente, lui era un business-man, il suo compito era organizzare l'evento, elargire una lauta borsa ad Ali', il giusto al suo contendente e avere un ritorno economico il più possibile elevato.
E Righetti non lo convinceva appieno, non da un punto di vista tecnico, ma non aveva ancora quel profilo adatto per uno come Ali'. La prima volta fuori dall'Italia, neanche un titolo europeo da esibire e un record accattivante ma con una percentuale del 50% di ko che se fosse stata vicino al 100% si poteva esibire con più enfasi. Era Spinks il pugile ideale per Alì, campione olimpico, ancora digiuno di professionismo e giudicato "comodo" per un eventuale chiusura con il botto della carriera di una leggenda. Ma Leon aveva rovinato tutto con quel pareggio con Le Doux, il primo pugile vero affrontato che un campione prossimo alla sfida con Ali' doveva spedire agevolmente al tappeto.
Ed allora arrivò l'idea che avrebbe messo tutti d'accordo, perché non far affrontare Spinks a Righetti in una semifinale per il titolo mondiale, che ufficiale non poteva essere, perché quelle ufficiale, poco frequenti, avvenivano quando c'era incertezza su chi fosse il numero uno della classifica e sfidante ufficiale al titolo e non era questo il caso perché nessuno dei due era ai vertici, ma che importava, quando era di dominio pubblico che chi avesse prevalso si sarebbe battuto con Ali', lo era a tutti gli effetti.
Per vedere il match cliccare www.youtube/Leon Spinks vs Alfio Righetti.




Spinks incontrò poi Ali e sappiamo tutti cosa avvenne, mentre Righetti con grande rammarico salì su l'aereo che l'avrebbe riportato a casa, convinto, pur disputando un buon match, che avrebbe potuto fare di più' e di essersi fatto sfuggire quel treno che può passare una sola volta nella vita. Per Rocco Agostino fu' uno dei più grandi rimpianti della sua gloriosa carriera di manager. A chiunque giornalista gli chiedesse di tornare su quel match fino agli ultimi giorni della sua vita (è morto la notte di natale del 2005) era solito ripetere che lui aveva fatto un capolavoro ad aver portato Righetti su quel ring, e che il romagnolo avrebbe potuto vincere: "al secondo round Spinks era groggy, ma Righetti invece di chiudere si fermo a vedere l'effetto che fa....e poi perse ai punti!" Ma il grande limite di Righetti, un po' mascherato dall'affetto di Agostino, era quello dell'assoluta mancanza di potenza nei pugni, cosa letale per un massimo e vengono alla mente le parole di Jack Jackson che nel deridere i suoi avversari affermava "Un peso massimo senza il colpo da ko è come una scimmia che non sa arrampicarsi sugli alberi"
Righetti dopo quel match tornò a combattere in Italia, l' America divenne un miraggio e non ebbe neanche la possibilità di sfruttare l'inerzia del buon match con il futuro campione mondiale dei pesi massimi perché la stella di Spinks nel 1978  non fece a tempo ad accendersi che con la stessa rapidità di spense...
Ma di Righetti torneremo a scrivere quando un paio d'anni dopo, in un tarda serata estiva tornò ad accendere il cuore degli italiani in un derby nazionale per il titolo europeo, con il campione in carica Lorenzo Zanon.

APPENDICE - Aver citato due volte il grande peso massimo d'inizio secolo Jack Jackson "The Galveston Giant" non può non farmi soffermare brevemente su questo straordinario personaggio. Nato a Galveston, Texas, il 31 marzo 1878, da genitori ex schiavi liberati dopo la guerra civile, conobbe un infanzia poverissima, lascio in tenera età la scuola per fare i più disparati lavori. Si avvicino alla boxe dopo essere passato per le "royal battle", incontri clandestini organizzati per mero divertimento, dove giravano ingenti somme di denaro in scommesse e dove due uomini di colore si picchiavano quasi e a volte anche fino alla morte ed al vincitore come ricompensa venivano tirati i soldi sull'arena, in segno d'apprezzamento. Arrivò a diventare campione mondiale dei pesi massimi, dopo che per anni, pur essendo riconosciuto il migliore della sua categoria non gli venne mai data l'occasione per battersi per il titolo. Il 26 dicembre 1908 finalmente arrivò l'occasione, in Australia, a Sidney dove un imprenditore locale era rimasto impressionato da Johnson che un anno prima aveva steso per ko due forti pugili australiani. L'imprenditore in questione decise di rispondere all'appello del campione mondiale dell'epoca, il canadese Tommy Burns "The Little Giant" che in maniera del tutto provocatoria aveva sempre affermato, quando gli si chiedeva il perché non affrontasse Johnson, che sarebbe stato un match inutile, senza storia, un bianco contro un nero, troppo più forte lui e che lo avrebbe affrontato solo per un compenso di 30.000 dollari. Un cifra assurda, più una provocazione che realtà, un'enormità, che si pensava che mai nessuno avrebbe sborsato. Ma invece quel giorno di Santo Stefano di 108 anni fa l'assegno arrivò nelle tasche di Burns e la cintura di campione avvolse i fianchi di  Johnson. Delle sue stravaganze che tanto infastidivano i "ben pensanti" americani abbiamo già accennato ma in realtà c'era in lui anche tanta rabbia repressa dopo anni di umiliazioni che lo portava ad essere così, atteggiamento che tra l'altro infastidiva anche i suoi colleghi, pugili di colore che lo chiamavano il campione mondiale nero-bianco. Jack Johnson era semianalfabeta ma era una persona molto intelligente. Certo amava il suo stile di vita ma c'era anche tanta voglia di provocare come a dire. "ehi ragazzo guardami, sono un negro, guido un automobile, vesto elegantissimo, ho le tasche piene di soldi da permettermi quello che voglio e al mio fianco c'è una donna bianca bellissima che tu non puoi neanche sperare un giorno di potergli dire solo buongiorno!"
A questo punto voglio soffermarmi brevemente su due match dei tanti che il gigante di Galveston sostenne nella sua carriera da pugile. Arrivarono in successione a dieci mesi di distanza tra il 1909 ed il 1910.
Il primo si disputò il 16 ottobre del 1909 e il suo avversario era altrettanto straordinario, si trattava di Stanislaw Kiecal alias Stanley Ketchel "The Michigan Assassin". Ketchel era nato a Grand Rapids, Michigan il 14 settembre 1886, figlio d'immigrati polacchi. All'epoca dell'incontro aveva da poco compiuto ventitré anni ma aveva già lasciato un segno indelebile nella boxe mondiale. Peso medio naturale, in questa categoria era diventato campione mondiale e suoi incontri con un altro fuoriclasse dell'epoca: Billy Papke "The Illinois Thunderbolt" erano gia' entrati nella storia per spettacolarità e sopratutto violenza e ferocia con la quale si erano battuti i due contendenti. Picchiatore tremendo, senza paura, aveva accettato di combattere per il campionato mondiale dei pesi massimi. Cercò di irrobustirsi e di prendere peso, cosa che gli riusciva più facilmente dato il suo stile di vita sregolato. E così nell'autunno del 1909 alla Mission Street Arena, Colma, California,  Ketchel invece che l'abituale vestaglia da boxer si presentò per ingannare il pubblico presente con un cappottone nero di parecchie taglie superiori alle sue, sembrava un bambino a cui i genitori hanno acquistato un capo d'abbigliamento che gli deve star bene per parecchi anni a venire. E calzava anche scarpette speciali che gli permettevano di guadagnare qualche centimetro in altezza. Ma quando rimase a torso nudo in pantaloncini le differenze fisiche tra i due erano spropositate in favore di Jackson, era un incontro impari, improponibile.....Per dieci round non accadde nulla di rilevante con il campione stranamente abulico e che usava il jab per tenere a distanza lo sfidante e che di tanto in tanto tirava qualche sventolaccia dalla distanza tanto per far desistire Ketchel da qualsiasi possibile tentativo di accorciare e con quest'ultimo inspiegabilmente passivo, privo della sua abituale aggressività, appariva timido, cauto, come ipnotizzato dal gigante che gli si parava davanti. Ma all'undicesimo round il match si accese. Johnson improvvisamente aumento il ritmo e colpì più volte duramente Ketchel che subì un atterramento ed un taglio profondo che aveva trasformato la sua faccia in una maschera di sangue. Fini il round sull'orlo del ko. C'è un episodio in questa undicesima ripresa che racchiude tutta l'essenza dell'incontro. Ketchel in evidente difficoltà tenta disperatamente più volte di legare per bloccare le braccia di Johnson, quando quest'ultimo infastidito dall'atteggiamento fin troppo permissivo dell'arbitro, che non richiamava Ketchel, per scrollarserlo di dosso lo sposta di lato alzandolo da terra con estrema facilità, come un adulto che prende in braccio un bambino. Ed era questa la grandissima differenza tra i due che rendeva il match improponibile, la grande differenza di forza fisica, aldilà dei centimetri ed il peso nettamente a vantaggio di Johnson. Il dodicesimo round iniziò nel silenzio generale del pubblico, preuccupato per Ketchel e con Johnson che forzava ancora il ritmo e colpiva di nuovo duro Ketchel, il ko era nell'aria, ancora pochi secondi e tutto sarebbe finito. Ed effettivamente tutto finì in pochi secondi, ed in una manciata di secondi avvenne una delle scene più spettacolari della storia della boxe e che fece riconoscere a questo incontro il venticinquesimo posto nella classifica assoluta dei match del secolo dal settimanale "The Ring". Ketchel improvvisamente colpi d'incontro alla nuca Johnson, una bordata terribile accentuata dal movimento in avanti del campione. Il gigante di Galveston tra lo stupore generale crollò a terra. Si era scateno' l'inferno. Il pubblico ammutolito, ormai rassegnato all'imminente sconfitta del proprio beniamino sembrava impazzito. Johnson visibilmente in difficolta a fatica riuscì' a rialzarsi mentre l'arbitro eseguiva il conteggio e con Ketchel appena dietro, pronto ad infliggere il colpo decisivo lo fissava, col volto sanguinante e con ghigno satanico stampato sul viso. Johnson era ancora visibilmente scosso ma pronto a riprendere la lotta. Ketchel era si un peso medio ma possedeva una tale potenza nei colpi che non solo poteva abbattere un peso massimo, poteva abbattere un toro! E proprio in toro infuriato quel colpo aveva trasformato il suo avversario che appena ricevuto l'ok dall'arbitro si lancio su di lui come una belva. Johnson travolse Ketchel e con un micidiale serie di colpi ed un diretto destro finale, spaventoso, che lo fece stramazzare a terra, esanime, come travolto da un treno in corsa. Johnson colpì con talmente tanta veemenza che nello slancio cadde anche lui a terra. Questa volta era Ketchel a subire il conteggio, tra la delusione ed un silenzio totale del pubblico e con il campione che ancora non aveva completamente recuperato dal colpo precedente, in precario equilibrio si teneva saldamente alle corde. Ma di contare Ketchel non ce n'era più assolutamente bisogno, era a terra in uno stato semi cosciente che non gli fece neanche sentire il ko gridato dall'arbitro e gli ci vollero parecchi minuti per riprendersi. In seguito si scrisse che i due clan si fossero accordati segretamente per una "tranquilla" vittoria ai punti in venti round (allora non esisteva ancora un regolamento specifico su quante riprese si disputasse un incontro di boxe, il numero veniva stabilito da un accordo tra i pugili e i manager in questione), una soluzione di comodo per entrambi e che avrebbe lasciato la strada aperta ad una ben remunerata rivincita. Ed infatti la sensazione che si ha nei primi dieci round, ma poi Johnson infastidito dall'avere avuto più di una volta la sensazione che Ketchel volesse fare il furbo decise di non rispettare l'accordo. Ma furono solo voci mai provate nei fatti. Cosi come risultò poi essere falso il fatto, che per molti anni a venire tenne banco, il quale voleva che Ketchel avesse anche tentato questa assurda avventura perché voleva eguagliare il leggendario britannico Bob Fitzmmons nella conquista del titolo mondiale in tre categorie diverse. Ma non era vero perché si, aveva in precedenza battuto, sempre nel 1909 Joseph Francis Hagan alias "Philadelphia" Jack O'Brien, allora campione dei mediomassimi, due volte per ko, in un occasione con il titolo in palio ma non era lui che aveva tentato la scalata alla categoria superiore ma O'Brien che era sceso per battersi nei medi. Di fatto lo si poteva ritenere anche campione dei mediomassimi ma nella realtà non lo divenne mai. Si era ancora agli albori della boxe e questo può aver ingannato più di qualche giornalista divenendo poi come una cosa accertata, ma falsa. Non c'era granchè di romanticismo nello spingere Ketchel ad affrontare il gigante di Galveston, ma soltanto la voglia d'intascare una cospicua borsa.
Il secondo incontro avvenne a distanza di dieci mesi, nel luglio del 1910, e ricorda la vicenda del film "Il Gladiatore" quando l'imperatore Commodo (Jason Phoenix) non sa più quali pesci prendere per far morire "legalmente" nell'arena l'odiato Massimo Decimo Meridio (Russell Crove) alias "Il Gladiatore" e fa tornare dalla Gallia a cinque anni dal suo ritiro dai combattimenti l'imbattuto e imbattibile Tigris. Ebbene questo avvenne in America nel 1910 ma ad invocare il ritorno sul ring
dell'ex campione mondiali dei pesi massimi James J. Jeffries, non era un imperatore ma un'intera nazione. James Jackson Jeffries come il personaggio di fantasia Tigris si era ritirato da cinque anni  imbattuto e con il titolo mondiale in suo possesso. Era amato e idolatrato come avviene oggi. Si era sempre rifiutato di combattere con Johnson quando era il campione, assumendo, e facendo scuola, lo stesso atteggiamento sprezzante del suo successore: Tommy Burns. La leggenda narra che Johnson si recasse spesso a San Francisco nella sede del Campionato Mondiale Pesi Massimi (era una federazione a parte), che era una taverna, un pub (che spettacolo!) per lamentarsi con i dirigenti del perché non gli dissero la possibilità di battersi per il titolo. Un giorno c'era tra gli avventori a bere qualche boccale di birra con degli amici Jeffries in persona, che non visto da Johnson attese in silenzio che finisse di parlare e poi si alzò spiegandogli che per lui non avrebbe avuto senso fare quel match, che ne avrebbe guadagnato, un pugno di mosche che lui non combatteva per riempirsi le tasche di mosche e poi aggiunse che se aveva tanta voglia di battersi con lui potevano scendere nello scantinato solo loro due e chi sarebbe risalito da quelle scale sarebbe stato il campione del mondo. Johnson in un primo momento accettò tra le urla di gioia dei presenti che speravano di poter sbirciare da qualche fessura, ma che poi ritenendosi un pugile professionista e che fare a botte con Jeffries fosse una cosa inutile e assurda, si rifiutò, e deriso da tutti, fissò il campione per qualche secondo, con gli occhi pieni d'odio come volesse aggredirlo lì davanti a tutti e con Jeffries che sosteneva lo sguardo come a dire "dai ragazzo...dai!" Se andò poi sbattendo la porta, urlando che sul ring dovevano battersi, se ne aveva il coraggio, solo sul ring.
Sulla fine delle prima decade del novecento Jeffries che aveva varcato la trentina, era ormai un ricco proprietario terriero, ingrassato a dismisura, che non aveva completamente lasciato il mondo della boxe divenendo un arbitro (cosa molto frequente allora per gli ex-pugili). Ma per gli occhi della gente era ancora lui il campione mondiale dei pesi massimi, una leggenda vivente, stampa, appassionati, tutti insomma invocavano un suo ritorno sul ring per mettere a posto quello sfrontato di Johnson. Perfino il grande scrittore e anche giornalista: Jack London si era scomodato scrivendo: "Jim Jeffries deve emergere dalla sua fattoria di erba medica e togliere per sempre il sorriso d'oro dal volto di Jack Johnson". Ma Jeffries di tornare sul ring non ne aveva assolutamente voglia. E dove fallirono gl'ideali vinse il dio denaro. Infatti dopo aver rifiutato qualsiasi offerta per affrontare Johnson ne arrivò una che non poté rifiutare: 120.000 dollari di montepremi al netto delle commissioni, 70.000 al vincitore e 50.000 allo sconfitto, una mostruosità a quell'epoca. E cosi Jeffries tornò' ad allenarsi. A modo suo. Lui che si era sempre sottoposto a regimi di allenamento tremendi e che quando era al massimo della forma con 1.87m x 102kg, si raccontava corresse le 100 yards (91m) in poco più di 11 secondi e che era in grado di saltare oltre il metro e ottanta. La data dell'incontro fu' fissata per il 4 luglio 1910, "L Independence Day" non a caso e fu' il secondo match a ricevere l'etichetta di "match del secolo" (ne arriveranno tanti altri) e anche passato alla storia come "la battaglia dei giganti". Tutti termini inventati dall'organizzatore Tex Richard che in questa occasione sarà anche l'arbitro. E non era più una lotta tra due uomini era una lotta interrazziale. E Jeffries stette al gioco gettando ancor più benzina sul fuoco quando nei giorni precedenti l'incontro dichiarò "che lui non era tornato sul ring né per il titolo e né per i soldi, ma che era tornato sul ring per ribadire ancora una volta la supremazia della razza bianca su quella nera". Ma era solo un atteggiamento di facciata perché Jeffries dimostrerà poi che oltre ad essere un grande pugile era anche un grande uomo. Il match originariamente previsto a San Francisco non ottenne l'avallo del governatore della California, dove la boxe era ancora proibita ed in fretta e furia la sede si spostò nel Nevada a Reno. In una città blindata, si temevano disordini e sommosse popolari tanto che i due pugili furono scortati dall'esercito nei giorni precedenti l'incontro, tutto era ormai pronto, si contavano i minuti. Ed il fatidico giorno arrivò, Jeffries aveva perso 40 chili e nonostante che da sei anni non salisse sul ring sembrava ancora in perfetta forma. Ma tutte le attese vennero tradite, tanto rumore per nulla. Non ci fu' storia, dopo un inizio in qualche modo equilibrato, dalla quinta ripresa in poi Johnson prese nettamente il sopravvento e diede l'impressione che avrebbe potuto terminare la contesa in qualsiasi momento avesse voluto. Al quindicesimo round, dei quarantacinque previsti (45!!!!!) ci fu' l'epilogo. Jeffries colpito duramente finì al tappeto una prima volta, poi immediatamente una seconda, si rialzo scosso e malfermo sulle gambe aiutato a rialzarsi dai secondi e giornalisti saliti arbitrariamente sul ring. Qualche secondo per ripristinare l'ordine e sgomberare il ring, che Johnson intenzionato a chiudere si lanciò come una belva su Jeffries e di nuovo lo mise al tappeto, di nuovo gente sul ring a cercare di rimettere in piedi lo sfidante, ma era inutile, era evidente che per Jeffries era finita. E mentre l'arbitro decretava la fine i secondi erano pronti a gettare la spugna per evitare ulteriori e pericolosi colpi al proprio assistito. Kot al quindicesimo round. Johnson aveva sgomberato ogni dubbio su chi fosse il numero uno. E Jeffries ammise nel dopo match che Johnson era un grandissimo campione e che con lui avrebbe perso anche quando anni prima era al massimo delle potenzialità, spegnendo cosi sul nascere ogni eventuale teoria che lui avesse vinto solo perché era ormai finito. Ma non riuscì a spengere la rabbia di quei beceri che si scatenarono poi. Appena la notizia si diffuse in tutta la nazione, e si seppe che a vincere era stato Johnson, in molte città degli Stati Uniti si verificarono pestaggi, anche mortali sulla popolazione di colore, magari perché avevano manifestato la loro gioia nell'apprendere la notizia, veri e propri squadroni della morte che perlustravano i ghetti e massacravano di botte qualunque nero incontrassero con la polizia che a fatica riusciva ad evitare i linciaggi.
Alla fine dell'assurda nottata i morti furono dieci e i feriti tantissimi.
Per Johnson quella vittoria fu' apoteosi ma dove non si riusciva sul ring si tento di detronizzarlo con la legge. Johnson accusato di un crimine assurdo fuggì dagli Stati Uniti per evitare il carcere e rimase in esilio per cinque anni dove non venne decaduto perché quel titolo lo doveva perdere con un bianco e sul ring e che difese due volte in Francia e una volta in Argentina. Con la promessa di un condono accetto di combattere per il titolo con Jess Willard, un gigante di due metri, texano, che aveva sempre fatto il cow-boy e che in preda all'alcol nel fine settimana si divertiva a spaccare la faccia a chiunque osasse sfidarlo (coraggioso o folle perché anche se ubriaco non si può' affrontare un tipo così), arrivato tardi alla boxe, accettando il suggerimento di gli diceva che visto che gli piaceva tanto combattere era meglio farlo per soldi e che era considerato in quel periodo il più forte massimo in circolazione A L'Avana il 5 maggio 1915 Johnson "finalmente" venne sconfitto per ko e detronizzato, alla ventiseiesima ripresa. Ci sono stati sempre dubbi sulla regolarità di questo match, si scrisse che Johnson per ottenere il condono e tornare da uomo libero nella sua nazione fu' costretto a perdere. Certo la foto che ha immortalato per sempre l'attimo in cui ormai a terra contato dall'arbitro, con le braccia alzate sembra coprirsi gli occhi dal sole, gesto troppo strano e sospetto per un pugile esanime, non ha fatto che alimentare questi dubbi. La versione ufficiale è sempre stata che era il riflesso incondizionato di un uomo privo di lucidità che non rendendosi conto di cosa gli accadesse in torno aveva alzato le braccia in segno di disperata difesa. Mah....????
Jack Johnson per poter permettersi il suo stile di vita che amava tanto combatté fino a età avanzatissima, dovunque il suo nome richiamasse ancora, trascinandosi in incontri ufficiali che per rispetto del campione alcuni sono spariti dal suo record, sconfitte con pugili anonimi e dall'anonima carriera. E' comunque per sempre ricordato come un grande campione, a suo modo rivoluzionò la boxe, specie nei massimi. Era se vogliamo in un certo modo già un pugile moderno, il suo stile era fatto di continua mobilità nel busto, schivate millimetriche e terribili colpi di rimessa, approccio sornione alternato a improvvisi cambi di ritmo, dava la sensazione di essere in difficoltà per incitare all'attacco senza prudenza il suo avversario per poi sorprenderlo e atterrarlo con velocissime combinazioni letali. E a lui s'ispirarono dichiarandolo apertamente parecchi campioni negli anni a venire. Poi arriverà qualcuno cinquant'anni dopo che cambierà la storia dimostrando che un massimo non poteva muoversi sul busto come un medio ma che un massimo sul ring poteva danzare come Nureyev (non credo ci sia bisogno di citare chi fosse.......) 
Johnson morì a sessantotto anni in un incidente stradale, tradito da quelle auto che tanto aveva amato per tutta la vita. Anche Billy Papke, il terribile avversario di Ketchel, e che dopo che questi aveva lasciato il titolo dei medi se ne rimpadronì saldamente, mori suicida una volta ritiratosi, senza motivi apparenti A cinquant'anni anni, nel 1936 si sparo un colpo alla testa, dopo aver ucciso la moglie che gli dormiva a fianco. Si scrisse che i terribili colpi subiti in carriera ne avessero minato irrimediabilmente  la salute mentale.
E anche Stanley Ketchel morì tragicamente. Ventisei anni prima di Papke, quasi esattamente un anno dopo il match con Johnson, ad appena ventiquattro anni. Era andato a Conway, Missouri a passare qualche giorno di riposo, in un ranch di proprietà un suo amico-ammiratore: il miliardario Rollin.P. Dickerson, stava tranquillamente facendo una passeggiata nella tenuta quando vide un maniscalco picchiare un cavallo che era ostile a farsi strigliare, Ketchel che amava gli animali, lo apostrofò pesantemente, minacciandolo che se l'avesse rifatto lo avrebbe pestato a sangue. Questi era Walter Kurz, da pochi giorni assunto insieme alla moglie, una testacalda che sicuramente aveva sentito parlare del famoso campione di boxe Stanley Ketchel ma che come la maggior parte della popolazione non sapeva che faccia avesse, pensò bene (anzi malissimo) di non rimandare ad una prossima volta e sfidò Stanley a pugni, salvo ritrovandosi dopo pochi secondi a terra, con il viso sanguinante e tumefatto, tra le risate generali dei presenti. Il giorno dopo Kurz che meditava vendetta sorprese Ketchel che stava facendo colazione gli sparò un colpo di fucile alle spalle. A quel punto la moglie Goldie Smith, l'unica persona presente al fatto, velocemente gli frugò le tasche, gli rubò il portafogli e lo consegno al marito, che si diede alla fuga promettendogli di rivedersi quella stessa notte in un punto prestabilito per fuggire insieme, mentre lei si dileguava nell'angolo più lontano della casa prima che la sala si riempisse dalle persone attirate dal rumore dello sparo. Ma Ketchel non era morto e in un attimo di lucidità fece il nome della cameriera ad un caposquadra che era accorso, era agonizzante ma il cuore batteva ancora. Il suo amico Dickerson affittò un intero treno, tutto per lui, nel tentativo di farlo arrivare all'ospedale di Springfield ma fù inutile Ketchel morì durante il viaggio. Nel frattempo la cameriera interrogata dallo sceriffo dichiarò che Ketchel stava cercando di violentarla quando irruppe il marito attirato dalle sue grida e tentò di aiutarla quando Ketchel lo massacrò di nuovo di botte ed in preda all'ira aveva estratto la pistola per ucciderli entrambi e che Kurz era stato rapido a prendere il fucile e sparare al campione e che poi in preda al panico era fuggito. Certo il carattere irruento di Ketchel si conosceva, e girare armato non era una cosa così insolita ma sembrava strano che un uomo con nelle mani un fucile vedendo la moglie aggredita lo appoggiasse da qualche parte per affrontare un altro che meno di ventiquattrore prima lo aveva pestato a sangue e che poi quest'ultimo tenendolo sotto minaccia pronto a sparare con una pistola gli voltasse le spalle permettendogli di prendere l'arma lì nei paraggi. E c'era anche la faccenda del portafoglio e messa alle strette confesso: Walter Kurz non era suo marito, anzi non era neanche molto che stavano insieme e si chiamava in realtà Walter Dipley, e che lei si era prestata ad aiutarlo perché minacciata, ma che non sapeva che lui volesse ucciderlo ma soltanto rapinarlo. Si scoprì che Dipley, all'epoca era un ex marinaio congedato con disonore, un balordo, un ladro e a questo punto anche un assassino e che vagabondava in cerca di un impiego presentando generalità false, per poi rubare quello che poteva e sparire. Si scatenò una caccia all'uomo e Dickerson promise 5000 dollari a chiunque desse informazioni utili sul fuggitivo. Ormai braccato venne arrestato il giorno dopo e al processo i due amanti diabolici vennero condannati entrambi all'ergastolo ma poi in un secondo processo la versione della donna, che aveva agito sotto minacce venne accettata e uscì di prigione dopo due anni. Dipley uscì invece dopo grazie ad uno sconto della pena, ventitré anni dopo, nel 1933 e si sa solo che morì nel 1956 e la sua vita inutile non sarebbe mai giunta ai disonori della gloria se non avesse vigliaccamente ucciso uno dei più forti pugili d'inizio novecento e che a soli ventiquattro anni tanto ancora avrebbe potuto dare al pugilato, allo sport. Cosi quel soprannome così enfatico ma puramente sportivo "l'assassino del Michigan" portò alla fine sfortuna a Stanley Ketchel.

Jack Johnson
 
Stanley Ketchel
 

James J. Jeffries

Billy Papke
Philadelphia Jack O'Brien


Jess Willard
 

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