venerdì 23 dicembre 2016

5 - Carlos Palomino v/s Wilfredo Benitez

CAMPIONATO MONDIALE WELTER WBC
14/01/1979 - SAN JUAN (PORTORICO)


A San Juan, Portorico, nella stadio del Baseball Hiram Bithorn nel pomeriggio del 14 gennaio 1979 si svolse il campionato mondiale Welter WBC tra il detentore il messicano d'America Carlos Palomino "Born King"e lo sfidante, l'idolo di casa Wilfredo Benitez "El Radar".
Palomino, 29 anni, detiene il titolo da due anni e mezzo ed all'ottava difesa ed è considerato il più forte peso welter al mondo ma il suo sfidante è un fenomeno: quel Wilfredo Benitez, portoricano, 20 anni, ch'è già entrato nella storia della boxe divenendo a diciasette anni e mezzo il più giovane pugile della storia a diventare campione mondiale, nella categoria superleggeri. E battendo un pugile formidabile come il colombiano Antonio Cervantes "Kidd Pambale", nel pieno della carriera tanto da rimprendersi saldamente il titolo una volta lasciato vacante da Benitez per poi perderlo rovinosamente con Aaron Pryor qualche anno dopo (vedi post 1) .

 
 
Carlos Palomino nasce a San Luis Rio de Colorado, nello stato di Sonora, città ai confini con la California il 10/08/1949 ma all'età di dieci anni segue la famiglia emigrata a Los Angeles in cerca di fortuna. Qui inizia a praticare la boxe e divenuto cittadino americano combatterà sempre per la bandiera a stelle e strisce, anche se una volta famoso, il Messico, specie quando disputerà match in paesi di lingua latina se ne riapproprierà la nazionalità. Diciamo un pugile con doppia nazionalità.
Dilettante importante nel 71 e 72 conquisterà il titolo militare interforze e in questo ultimo anno arriverà in finale ai campionati nazionali nella categoria welter, battuto dal futuro campione olimpico Sugar Ray Seals e la corsa verso Monaco 1972 si fermerà ai quarti eliminato da un'altra vecchia conoscenza: Pete Ranzany. Va' precisato che in quel periodo in America il livello era altissimo e in ogni categoria specialmente dai leggeri in su, atleti che potevano ambire ad un podio olimpico erano almeno un mezza dozzina. Smaltita la delusione della mancata partecipazione olimpica Palomino passò professionista il 14/09/1972 alla "veneranda" età di 23 anni, cosa rara per un pugile della sua cultura ma va detto che Carlos era diplomato, cosa rarissima allora e che lui si era arruolato nell'esercito americano con l'intenzione d'intraprendere la carriera militare e che non aveva mai pensato alla boxe come una professione e che solo dal 1971 in poi si lasciò convincere che per lui nel pugilato ci sarebbe potuto essere un grande futuro. Dopo quel primo successo arrivarono altre 9 vittorie (3 ko) ed un pareggio. Da notare come Palomino all'inizio della carriera non vincesse spesso prima del limite, questo perché lui era un demolitore non possedeva il colpo secco alla Pipino Cuevas e più aumentava il numero delle riprese e in proporzione anche lo spessore degli avversari ma più le sue qualità potevano trovare la massima espressione. Il primo stop in carriera lo subì il 02/08/74 al coliseum di San Francisco, ai punti su10 round, dal californiano Andy Price "The Hawk", allora ventenne con il futuro da grande assicurato ma che non si tramutò mai in solida realtà. Comunque Curiosa la carriera di Price: per anni nella top ten della categoria, con nel record vittorie importanti, tra cui spiccano due con futuri campioni mondiali di lungo corso come Palomino prima e Cuevas poi, non riuscirà però mai a battersi per il titolo mondiale. Probabilmente mal gestito. Nei due anni successivi a Palomino con una striscia di 9 vittorie (6ko) e 2 pareggi il 22/06/1976 arrivò la possibilità di combattere per il titolo contro il campione in carica, il forte picchiatore britannico  John H Stracey, 25 anni, 44+ (33ko) 3- (1ko) all'Empire Pool di Londra. Per Palomino non solo era la prima volta fuori dagli Stati Uniti, ma la prima volta fuori dalla California, soprattutto la sua Los Angeles dove aveva sostenuto quasi tutti i suoi match da professionista. Il campione era un pugile pericoloso, alla sua terza difesa e con l'ausilio dello scatenato pubblico tutto per lui, nei primi sei round riuscì a portare il match in suo favore ma dalla seconda metà dell'incontro Palomino prese decisamente l'iniziativa e rovesciò l'esito fino al dodicesimo round quando l'arbitro decretò il ko tecnico in piedi salvando Stracey da ulteriori colpi ormai passivo sotto la gragnuola di pugni dell'americano. La seconda difesa cinque mesi dopo, all'Olympic Auditorium di Los Angeles, il 21/01/1977 fu' un match difficile, molto più del previsto contro il messicano naturalizzato americano: il trentenne Armando Muniz "El Hombre" 40+ (26ko) 10- (0ko) , un ottimo pugile, fisicamente un sosia di Cuevas, dalla storia molto simile a Palomino, anche lui figlio d'immigrati messicani e che non ci si lasci ingannare dall'elevato numero di sconfitte perché Muniz era un avversario difficile e che due anni prima si era già battuto due volte per lo stesso titolo perdendo in entrambi i casi con il campione in carica dell'epoca: il cubano-messicano Jose Napoles. Palomino atterrato alla prima ripresa era irrimediabilmente in svantaggio nel punteggio dei giudici quando con un impeto d'orgoglio nell'ultimo round con le sue micidiali serie rovesciò l'esito atterrando due volte l'avversario fino a vincere per kot alla 15a ripresa, riuscendo così a conservare la corona. Questo match ritenuto uno dei più spettacolari del 1977 sarà ricordato nel tempo come "la battaglia dei laureati" perché entrambi i pugili finita la carriera terminarono gli studi e si laurearono, mosche bianche nel pugilato dell'epoca. Muniz, laureato in matematica e letteratura spagnola diventerà poi un professore delle scuole superiori. Alla seconda difesa volò di nuovo a Londra, il 14/06/77, sempre all'Empire Pool, sempre contro un inglese, il quotatissimo e imbattuto: il ventiquattrenne  Dave "Boy "Green 24+ (19ko), campione europeo e numero 2 delle classifiche mondiali, che tre mesi prima aveva sconfitto per ko alla 10a ripresa il connazionale ed ex campione mondiale John H. Stracey in una sorta di semifinale mondiale. Anche qui Palomino faticò nelle prime riprese a contenere l'esuberanza di Green ma poi cominciò decisamente a prendere il mano il match fino all'11° round quando concluse una delle sue serie micidiali con un gancio sinistro tremendo al mento che fece cadere rovinosamente a terra Green privo di sensi. L'arbitro preoccupato dalle condizioni del britannico non effettuò neanche il punteggio decretando il ko tecnico e richiamò immediatamente il medico sul ring. A Green gli ci vollero diversi minuti per riprendersi tra gli applausi del suo pubblico che aveva trattenuto il fiato per le sue condizioni e di nuovo ammutolito e gelato da Palomino. La terza difesa fù una vittoria ai punti contro il trentatreenne argentino Everaldo Costa Azevedo 71+ (17ko) 14- (2ko). il 13/09/77 in casa sua all' Olympic Auditorium. Azevedo era amministrato da Giovanni Branchini e disputò tantissimi match in Italia tanto da essere quasi un avversario italiano quando si batte' per il titolo. La quarta difesa sempre a Los Angeles fù un'agevole vittoria per ko contro il "connazionale" messicano trentenne Jose Palacios 10+ (7ko) 9- (4ko) pugile tutt'altro che irresistibile ma che quattro mesi aveva battuto a sorpresa ai punti con un verdetto molto contestato Armando Muniz "scippandogli" la chance mondiale ormai prossima. La quinta difesa ancora una vittoria prima del limite, l'11/02/78 contro il trentenne giapponese Ryu Surimachi 55+ (31ko) 9- (3ko) campione asiatico che aveva in precedenza fallito due assalti al mondiale all'allora unificato titolo  WBC & WBA dei Superwelter: prima ai punti con split-decision contro il connazionale Koichi Wajima (1973) e nel 1974 era finito kot alla settima con il texano Oscar Albarado.  La sesta difesa: il 18/03/78 ancora una vittoria per ko, contro lo spagnolo di origine marocchina Mimoun Mohatar, ex campione africano che finirà kot alla nona. La settima e ultima difesa: il 28/05/78, un remake con "El Hombre" Armando Muniz sconfitto questa volta ai punti anche perché Palomino limitato per un infortunio grave patito durante l'incontro: la frattura della mano sinistra. Quindi a sei mesi da quell'incontro Carlos Palomino con tanta fiducia ma altrettanta preoccupazione, si appresta a difendere per l'ottava volta il suo titolo contro un già ritenuto fuoriclasse, nonostante la giovane età Wilfredo, Benitez
,

Wilfredo Benitez  "El Radar" nasce nel Bronx, New York il 12/09/58 da genitori portoricani molto attaccati alle proprie radici e lui nonostante crescerà per le vie del Bronx sarà sempre considerato un portoricano. Il padre Gregorio, ex pugile, possessore di una palestra dove la madre faceva da amministratrice, fin dalla tenerà età gli farà respirare boxe, sulle orme di due fratelli più grandi Gregorio jr. e Frankie, anch'essi pugili. Come loro, Wilfredo sarà allenato dal padre che, gli farà anche da manager all'inizio e che da giovanissimo lo farà' debuttare da professionista, quindici anni appena compiuti. il 13/11/73.
Benitez era un autentico prodigio, già a sedici anni si parlava di lui come un fenomeno, non un gioiellino da esibire in vista di traguardi prestigiosi ma come un pugile pronto a battersi per il titolo mondiale. Possibilità che non tarderà ad arrivare dopo che imbattuto con una striscia di 26+ (20ko) il 06/03/76 tra la sorpresa generale sconfiggerà in casa per il titolo mondiale superleggeri WBA, il fortissimo colombiano Antonio Cervantes "Kidd Pambele", 30 anni, uno dei più forti pesi superleggeri di sempre, che era alla sua decima difesa. Pugile tutt'altro che in fase calante, capace di riprendersi il titolo alla prima occasione e difenderlo per altre sei volte. Il match si svolse allo stesso stadio del baseball dove si disputerà quello con Palomino, con la presenza di molti compagni di scuola di Benitez invitati per l'occasione. Uno a diciasette anni invita i propri compagni per qualche giorno in una casa al mare o in montagna Benitez li ha invitati ad assistere al suo match per il titolo mondiale (!!!).  Benitez difenderà due volte il titolo: una prima contro il forte ventitreenne messicano Emiliano Villa  24+ (12ko) 2- (1ko) sconfitto ai punti a San Juan, Portorico il 31/05/76 ed una seconda sempre in casa prima del limite contro il temibile ventiquattrenne connazionale del Massachussets Tony Petronelli 35+ (20ko) 1- (0ko) il 16/10/76. Venne decaduto dalla WBA il 28/11/76 dopo che Benitez saltò un paio di settimane di allenamento per via di un incidente stradale, senza troppe conseguenze per fortuna, chiese di rinviare la rivincita prevista per il 4 dicembre con Antonio Cervantes, ben presto ritornato numero uno della classifica e designato sfidante ufficiale. La sua richiesta non venne ritenuta valida e lui rifiutandosi di battersi per quella data, venne privato del titolo. Quella di decadere Benitez a mio parere è una decisione scellerata. Per me i dirigenti di una qualsiasi federazione sportiva, di qualsiasi sport, dovrebbero tenere sempre bene a mente che i protagonisti sono gli atleti e non loro e sottostare qualche volta, anche al capriccio di un campione, non è segno di debolezza ma d'intelligenza perché non concedere magari sessanta giorni a Benitez ha privato per sempre la boxe di una rivincita Benitez-Cervantes. Il 02/02/77 Benitez, non più campione del mondo pareggiò con Harold Weston,  suo concittadino, in una specie di derby al Madison Square di New York. Ne venne fuori un gran match, molto spettacolare che Benitez aveva anche vinto, di poco ma vinto. Ma quando dopo essere in vantaggio dal sesto round si lasciò andare ad atteggiamenti clowneschi e di assoluta mancanza di rispetto nei confronti dell'avversario, che non furono perdonati ad un ragazzo di diciotto anni, il pubblico all'inizio tutto per lui gli si rivoltò contro incitando Weston. Sicuramente l'atteggiamento di Benitez venne penalizzato anche nel cartellino dei giudici. Comunque Weston era un buon pugile che in carriera combatterà due volte per il mondiale welter. Arrivarono poi tre vittorie ( 2 prima del limite ) e Benitez  il 03/08/77 "conquisto il titolo mondiale vacante superleggeri NYSAC" sconfiggendo per kot alla 15a ripresa il venezuelano Ray Chavez Guerrero 30+ (16ko) 6- (1ko). Una genialata fortemente voluta dal padre manager Gregorio che voleva rispondere con una provocazione alla WBA che aveva privato il figlio del titolo. Il padre-padrone per Wilfredo fu' sempre più un problema che un vantaggio per tutta la sua carriera. Questo fu' l'ultimo suo match come superleggero e salì nei welter anche perché il suo corpo maturando stava crescendo con conseguente aumento di qualche chilo sempre più difficili da togliere per rientrare nella categoria. Al primo incontro nei welter rischiò di lasciarci seriamente le penne quando il 04/02/78 al Madison Square Garden contro il lanciatissimo e imbattuto texano Bruce Curry, 21 anni, (fratello maggiore del fuoriclasse Don) al quarto round subì il primo atterramento della carriera. Appena rimessosi in piedi di nuovo colpito da una serie micidiale venne atterrato di nuovo e nel tentativo di rialzarsi, in evidente difficoltà e malfermo sulle gambe finì quasi fuori dal ring. C'erano gli estremi per il ko tecnico, forse l'arbitro lo perdonò perché stava finendo il round. In qualche modo riuscì a riprendersi e terminò la ripresa e portò a casa il match con un verdetto non unanime che lasciò non poche perplessità. Il famoso arbitro Arthur Mercante che vide vincitore Curry dichiarò che era stato uno dei match più spettacolari che avesse mai arbitrato. Benitez dichiarò' poi che per guai fisici aveva solo sette giorni di allenamento veri prima di quell'incontro. Questo è stato anche un po' il limite di una carriera, anche se straordinaria e da fuoriclasse, di Wilfredo. Si montò presto la testa. Certo è difficile rimanere con i piedi per terra quando a diciassette anni, un'età dove molti cominciano a debuttare come dilettanti si è già ricco, famoso e campione del mondo. Pugile dall'ego smisurato, si sentiva superman, si era convinto che non c'era bisogno d'allenarsi poi cosi tanto per sconfiggere chiunque, ma anche se madre natura ti  ha dotato di un talento straordinario per restare a grandissimi livelli ci vogliono sempre sudore e lacrime. E il padre uomo già dal carattere spigoloso si era montato la testa più di lui. I Benitez non erano poveri ma è chiaro che con Wilfredo il padre, quasi sconosciuto proprietario e allenatore di una palestra nel Bronx in quanto a fama e ricchezza avesse vinto alla lotteria. Il 04/02/78 a grande richiesta ci fu' la rivincita, ma il match tradì le attese e la vittoria ai punti di Benitez senza troppo strafare fu' abbastanza chiara. Bruce Curry era comunque un ottimo pugile e lo dimostrerà qualche anno dopo diventando campione mondiale superleggeri WBC, essendo sceso di categoria per non trovarsi in contrasto con il fratello Don Curry campione nei welter. Ed è proprio questo fratellino così ingombrante ad avergli fatto sempre ombra nel ricordo degli appassionati quasi a farlo cadere nel dimenticatoio. Il 25/08/78 per Benitez un'altra vittoria per abbandono al settimo round contro il forte biondo californiano Randy Shields, 22 anni, 31+ (16ko) 3- (2ko), che sommandosi con le due con Curry lo proiettarono al numero uno della classifica WBC e nominato sfidante ufficiale arrivò a questo incontro con Palomino. A dire il vero prima della sfida mondiale Benitez sostenne un altro match vittorioso contro un anonimo Vernon Lewis, niente più di un incontro di rodaggio in vista della grande sfida con il californiano. Imbattuto con 27+ (15ko) ed un pareggio spavaldamente dichiarava che era arrivato il tempo della pensione per Carlos, il quale rispondeva che era invece arrivato il momento di una sonora sculacciata per quel sbruffoncello del Bronx.
Fu' una vigilia agitata per entrambi i pugili: Palomino come scritto sei mesi prima nell'ultima difesa si era rotto la mano e i suoi manager avevano dapprima accettato con entusiasmo la sfida con Benitez allettati dalla borsa di 450.000 dollari salvo poi fare marcia indietro e chiedere un rinvio adducendo che il loro assistito era stato inattivo per troppo tempo e che per recuperare perfettamente la condizione fisica aveva bisogno di qualche mese in più e di disputare almeno un match di preparazione, senza titolo in palio contro un avversario "comodo". Ma la richiesta venne bocciata e Palomino minacciato della privazione del titolo. Dall'altra parte invece era successo che nel 1977 Gregorio Benitez aveva ceduto la procura del figlio ai manager Jim Jacobs e Bill Clayton per 77.000 dollari cash con l'accordo non scritto che lui sarebbe rimasto l'allenatore del figlio. Ma i due manager per niente soddisfatti dalla condizione fisica di Wilfredo con Curry, specialmente nel primo match, con decisione unilaterale gli affiancarono come allenatore l'ex grandissimo fuoriclasse Emile Griffith, da poco ritirato dall'attività. Gregorio diede di matto, minacciando di stracciare tutto ma poi riportato a più miti consigli, impaurito dalla forte penale o dalla restituzione dell'intera somma accetto suo malgrado questo sodalizio dichiarando che Griffith era stato ingaggiato solo per curare la tecnica del figlio ma che per quanto riguardava metodologia di allenamento e tattica erano sue complete esclusive. Tutto sommato con Shields e figuriamoci con Lewis non ci furono problemi, ma i problemi arrivarono in vista di Palomino, quando Griffith sempre più nel pieno del suo ruolo dichiarò che Benitez per battere il campione del mondo avrebbe dovuto fare il match perfetto, sfruttando tutte le sue capacità difensive, non per niente era chiamato il radar, perché una battaglia a viso aperto avrebbe favorito Palomino che era una macchina da guerra, contraddicendo il padre di Wilfredo, Gregorio che andava dichiarando che il figlio non avrebbe dato tregua a Palomino e lo avrebbe sconfitto proprio nel suo campo, e anche prima del limite. Per Gregorio la presa di posizione pubblica di Griffith era troppo. Si affrettò a ribadire che il suo ruolo era solo quello di curare la tecnica e che quella era un opinione, anche se rispettabile perché di un ex campione ma sempre un opinione, il figlio avrebbe seguito le sue indicazioni tattiche. Ma in palestra il focoso Gregorio aveva meno self-control e si rischiò più di una volta lo scontro fisico con Griffith, che non era certo tipo da tirarsi indietro, quando innervosito si rendeva conto che il grande campione aveva sempre più presa nel figlio e lui sempre più confinato ai margini.Gli stavano sfilando il giocattolo da sotto il naso.

MATCH : San Juan, Estadio Hiram Bithorn, ore 15.00, gremito in ogni ordine di posto, il campione con una borsa di 450.000 dollari e lo sfidante che si deve accontentare di meno di un quinto (80.000) ma con il pubblico tutto per lui. Tutto pronto si attende solo il suono del primo gong.
Benitez si mette immediatamente al centro del ring, muove il busto continuamente mentre è fermo sulle gambe come se le due parti del corpo fossero distinte ad invitare Palomino a farsi sotto ed il campione a girargli intorno sicuramente sorpreso perché aveva immaginato lui a centro ring e Benitez a girargli intorno. Per quattro round non accadde nulla di sostanzioso con Palomino che non riusciva a prendere le misure all'avversario che lo punzecchiava senza affondare i colpi ma che si era fatto preferire e già in vantaggio nei verdetti. Nell'intervallo l'angolo di Palomino preoccupati dalla passività del proprio pugile, gli avevano chiesto più volte rassicurazioni sulla sua condizione fisica e all'ennesimo ok avevano cercato di scuoterlo e di attaccare a testa bassa. Carlos cosi fece. Parti all'attacco come un furia, intensificò il ritmo e a metà ripresa mise a segno due duri colpi e sul finire un gancio alla tempia inchiodò alle corde Benitez parzialmente salvato dal suono del gong. L'entusiasmo era tornato all'angolo di Palomino che aveva fatto propria la ripresa e sicuro di avere il match in mano. Ma era solo una breve illusione. Infatti il campione non possedeva il colpo secco da ko,  ma aveva bisogno di scatenare la sua serie micidiale per demolire l'avversario ma con Benitez non funzionava. Riusciva si a pizzicarlo con un colpo ma una frazione di secondo dopo la testa di Wilfredo non c'era più ( non per niente era chiamato "El Radar" ), schivata millimetrica e colpo di rimessa. Palomino era come disinnescato. Sesta, settima, ottava, nona ripresa sempre con il campione all'attacco e Benitez a pedalare sul ring, anche qualche buon colpo da parte di Palomino ma sempre replicati dallo sfidante. Riprese tutto sommato pari ma con l'inerzia dell'incontro sempre dalla parte del portoricano. Alla decima ripresa Benitez sentendosi padrone del match cominciò a lasciarsi andare a qualche suo atteggiamento provocatorio saltellando per il ring a irridire Palomino che appariva chiaramente in riserva ma che orgogliosamente non voleva arrendersi. Le urla di Griffith che aveva paura di buttare tutto al vento con qualche stupidata frenarono subito il suo pupillo. Ma non era una pagliacciata come con Weston, Benitez era lucido e con il jab punzecchiava continuamente il campione che schiumava rabbia incapace di opporre adeguate contromisure. Dal 12° round l'angolo del campione cominciò ad esortarlo a giocarsi il tutto per tutto e cercare il ko. Palomino attaccò ancora con la forza della disperazione ma la situazione era sempre quella. Un colpo a segno e due subiti. Nelle ultime due riprese Benitez visibilmente stanco alle corde sfidava il suo avversario ad attaccarlo ancora come a dire "amigo!.... per te è finita....ancora una manciata di secondi e mi consegnerai la cintura di campione....". Palomino, ancora più stanco attaccò e attaccò ancora. Ci furono scambi vivaci tra il visibilio dello scatenato pubblico tutto per Benitez. Ma ormai i colpi avevano perso potenza, più appoggiati che assestati.  Al suono del gong finale iniziò la festa con il pubblico che inneggiava al proprio pupillo sicuro della vittoria e con Palomino al suo angolo nervosamente a girare su stesso, consapevole di non essere riuscito a comandare il match e con la sconfitta sulla pelle. La lettura dei verdetti videro due giudici con 146-142 e 146-143 per Benitez e un terzo con clamorosa vittoria per Palomino 145-142. Fu' una split-decision ma poco importava Wilfredo Benitez era il nuovo campione mondiale WBC Welter.


Il verdetto assegnato a Palomino fece gridare allo scandalo, anche se non schiacciante la vittoria di Benitez era comunque netta, si accesero grandi discussioni che per giorni tennero banco nelle pagine sportive, troppo sospetto per essere sincero. Anni dopo nel riparlare di quel match il giornalista che faceva la per il New York Times: Michael Katz arrivò perfino a scomodare Frankie Garbo il mafioso che negli anni cinquanta per conto di cosa nostra riuscì ad aggiustare molti match (di lui se ne fa cenno anche su quello giudicato il più bel film sulla boxe di sempre: Toro Scatenato, con De Niro nella parte di Jake La Motta). Magari un'esagerazione perché può darsi che Zach Clayton, il giudice in questione, avesse voluto semplicemente punire l'atteggiamento troppo difensivo di Benitez.
Per chi volesse vedere il video del match (certo 15 riprese senza il phatos della diretta sono veramente lunghe...) è molto bello il pre-match dove all'inizio si vedono i due pugili, con Palomino più a suo agio dietro una telecamera mentre Benitez sembra quasi intimidito al suo cospetto, mentre minuti dopo nell'attesa del primo gong si vede il portoricano come trasformato, sembra un altro, fissare il suo rivale come una tigre nel suo terreno di caccia ed il ring era l'ambiente naturale di Wilfredo.
Per quest'ultimo chiaramente fu' il trionfo. A vent'anni già nella storia della boxe, due titoli mondiali in bacheca e con due campioni detronizzati come Cervantes e Palomino.
Per l'ex campione fu una difficile sconfitta da metabolizzare. Riconobbe sportivamente la vittoria del suo giovane avversario e dichiarò di non sentirsi offeso dai suoi atteggiamenti provocatori sul ring, perché affermava che quando provengono da un vero campione non c'è nulla di  male....fa parte del gioco.
Mentre il suo manager parlò di giornata storta. Il suo pugile aveva risentito troppo della lunga inattività e chiese a gran voce la rivincita affermando che se Benitez era un uomo doveva affrontare di nuovo Palomino e questa volta la storia sarebbe stata diversa
Ma ai manager di Wilfredo di dimostrare la sua virilità non interessava molto, non era la paura di riaffrontare il californiano che li frenava ma più la voglia di far sfidare il loro assistito con un giovanotto nato a Wilmington, North Carolina, già campione olimpico, già un fenomeno mediatico, già da tutti considerato il più forte peso welter in circolazione e che aveva lo stesso nome del più grande peso medio di tutti i tempi: Sugar Ray. Con lui l'assegno della borsa avrebbe superato il milione di dollari e perché rischiare di compromettere tutto con Palomino per far intascare a lui una somma del genere. Per Carlos Palomino trovata la porta chiusa c'era solo una cosa da fare: sconfiggere qualche pesce grosso per diventare il numero uno e quindi sfidante ufficiale. Ma il suo proposito naufrago contro uno "squalo del ring", quando cinque mesi dopo: il 22/06/79 il ventottenne fuoriclasse e terribile picchiatore panamense Roberto Duran, "Manos de Petras" 28 anni, 67+ (54ko) 1- (0ko), già' campione mondiale e una leggenda nei leggeri, al Madison Square Garden lo sconfisse nettamente ai punti, non dopo avergli fatto subire un paio di atterramenti e che solo il suo temperamento e orgoglio evitarono il ko.
E una mazzata ancora peggiore, tremenda, glie la diede la vita quando il fratellino Paul, 18 anni, promettente dilettante, fu' uno delle vittime di un incidente aereo in Polonia dove si trovava in trasferta con una rappresentativa statunitense. Per la Palomino che già aveva mostrato propositi di ritirarsi fu' la fine, si sentiva in qualche modo responsabile, se non avesse fatto la boxe e diventato un'ufficiale dell'esercito americano come aveva  sognato d'adolescente, il fratello non avrebbe seguito le sue orme. Era il suo orgoglio. Quante volte aveva sognato di stare al suo angolo quando fantasticava che sarebbe diventato un campione, anche più grande di lui, ma questo non si realizzò mai. Arrivò ad odiare il pugilato e si ritirò'. Riprese gli studi e si laureò in marketing & gestione aziendale, ma poi riuscì a realizzare un altro suo grande sogno segreto diventando un attore salvo poi contemporaneamente tornare sul ring a 47 anni e sostenere altri 5 match ( 4+ 1-) di cui è meglio sorvolare. Comunque una vita straordinaria la sua !!!
La International Boxing Hall of Fame gli ha riconosciuto il giusto valore inserendolo nel 2004 dopo la World Boxing Hall of Fame che lo aveva già inserito nel 1998. Palomino è stato un grande campione, per un paio d'anni il più forte peso welter al mondo, certo le sue difese non appaiono con nomi altisonanti ma bisogna tener presente che le federazioni mondiali erano già due e i pugili erano quelli. Poi in quel periodo non é che ci fosse tutta questa fila per incontrarlo, ricordo un articolo su di lui su Boxering in cui si affermava: "i suoi avversari hanno talmente paura d'incontrarlo che lo evitavano anche alla fermata dell'autobus". Comunque anche per lui vale il discorso fatto per Cuevas (vedi post 1), nella considerazione post carriera pagò il fatto che arrivarono in quegli anni quattro fuoriclasse come Benitez, Duran, Hearns e Leonard, che per uno scherzo del destino tutti in una sola categoria, facendo diventare per alcuni anni i pesi welter la più seguita categoria del pugilato mondiale spodestando anche quella dei massimi da sempre al centro del mondo della boxe.
Per Wilfredo Benitez dopo questo match fu' naturalmente un'altra storia. La sua autostima crebbe a livelli galattici, troppo preso a godersi se stesso non gl'interessavano le strategie dei manager interessati solo a sfruttarlo e un avversario valeva l'altro, tanto ormai si sentiva invincibile. E non gli interessavano neanche i capricci di quel padre così ingombrante era come un veliero che navigava a vele spiegate verso la gloria e aveva già superato due ostacoli enormi ma se fosse stato meno distratto era già visibile ad occhio nudo, laggiù all'orizzonte uno grande tutti e due i precedenti messi insieme ed anche di più, stavolta, si rischiava di affondare........!

APPENDICE - Il 14 marzo 1980 il volo Lot 007 precipitò nei pressi dell'aereoporto di Varsavia uccidendo tutti gli 87 passeggeri a bordo. Tra di loro vi si trovava una rappresentativa americana di pugili dilettanti in tourneè per una sfida internazionale prima contro una nazionale polacca e dopo pochi giorni per disputare a Lodz per disputare un importante torneo internazionale. Oltre come scritto al fratello di Carlos Palomino: Paul morirono anche altri promettenti pugili come: David Rodríguez, Chuckie Robinson, Byron Lyndsay, Walter Harris, Lonnie Youngs, Jerome Stewart e Lemuel Steeples. Bobby Czyz futuro campione mondiale nei professionisti si salvo la vita perché rimase negli Stati Uniti perché coinvolto in un incidente stradale che gl'impedì di partire pochi giorni prima, per fortuna non sostituito.
Ho letto spesso che si fa riferimento a quella rappresentativa USA come a quella olimpica, cosa assolutamente falsa. Prima di tutto erano tutti giovanissimi di 17-18 anni emergenti, alla prime convocazioni in nazionale e non erano in quel momento tra i pugili più forti nelle rispettive categorie e poi i Trials dovevano ancora essere disputati. La selezione del candidato di ogni categoria a disputare l'olimpiade funzionava così: prima un torneo denominato Olympic Trials dove gli 8 boxer per categoria indicati dalla commissione nazionale, partendo dai quarti si riducevano a due selezionati per un raduno collegiale. Di solito i due finalisti ma mentre per il vincitore era assicurato per il finalista lo era al 99%, ma non era al regola. Dopo due settimane si disputava l'Olympic Trials Box-Off (dentro o fuori) dove si ripeteva la finale in un incontro ufficiale però con le canottiere della nazionale (che bello quando nei tornei internazionale s'indossavano divise con i colori nazionali non come adesso blue e rosso come nelle discipline di lotta, ma si sa con il progresso si va sempre di corsa e non e c'è tempo per il romanticismo) con all'angolo allenatori federali. Se il verdetto dei Trials veniva ribaltato due giorni dopo si disputava lo spareggio decisivo che avrebbe decretato il titolare, che avrebbe disputato le olimpiadi e la riserva in patria. Certo dei sfortunati ragazzi morti nell'incidente aereo alcuni sarebbero stati selezionati negli otto iniziali e magari uno o due di loro sovvertendo i pronostici avrebbe vinto anche i trials e poi si sarebbe riconfermato nel box-off ma sarebbe stata una grandissima sorpresa perché non erano al top delle classifiche nazionali, diciamo che la loro olimpiade sarebbe stata quella di Los Angeles 1984, che se sarebbero rimasti dilettanti per quell'evento sarebbero stati sicuramente tar i più forti in circolazione. I Trials si disputarono regolarmente da il 15 al 21 giugno ad Atlanta ed espressero i seguenti verdetti: Minimosca: Robert Shannon b. Tommy Ayers / Mosca: Richard Sandoval b. Jerome Coffee / Gallo: Jackie Beard b. Harold Petty / Piuma: Bernard Taylor b. Irving Mitchell / Leggeri: Joe Manley b. Frankie Randall / S.Leggeri: Johnnie Bumphus b. Ronnie Shields / Welter: Don Curry b. Davey Moore / S.Welter: James Shuler b. Kenneth Styles / Medi: Charles Carter b. Randy Smith / Mediomassimi: LeeRoy Murphy b. Elmer Martin / Massimi: James Broad b. Chris Mc Donald. Ma il Box-Off non si disputò mai perché con una decisione infame molti paesi del blocco occidentale decisero di boicottare le olimpiadi di Mosca spezzando il sogno a tutti gli atleti di ogni disciplina presente nel programma olimpico che avevano raggiunto il sogno di una vita con sacrificio, sudore e passione e privando milioni di spettatori appassionati di duelli sportivi emozionanti.
Se ce ne fosse bisogno di ribadire ancora una volta il livello della boxe dilettantistica USA in semifinale nei piuma venne eliminato un certo Hector "Macho" Camacho (!!!!) diciottenne allora sotto la bandiera americana.
Dei 22 citati finalisti dei trials spicca tra tutti certamente il nome del texano Don Curry, diventato poi un grandissimo campione dei pesi welter, in una scala di valori un gradino sotto i favolosi quattro: Benitez, Duran, Hearns e Leonard ma superiore a Palomino e Cuevas per intenderci. Altri sei diventarono campioni mondiale nei professionisti: Richie Sandoval (gallo), John Manley (superleggeri), Frankie Randall (superleggeri), Johnnie Bumphus (superleggeri), Davey Moore (superwelter) e Lee Roy Murphy (massimi leggeri) e altri sei furono sfidanti al titolo: Coffee, Beard, Petty, Taylor, Mitchell e Shields. James Shuler "Gold Black" dopo la sfortunata semifinale mondiale dei medi con Tommy Hearns il 10/03/86 dove era arrivato da numero uno della classifica mondiale con un record di 22+ (16ko) mori a soli 26 anni altrimenti anche lui sicuramente si sarebbe battuto per il titolo.
A questo punto come avrebbe detto un noto conduttore di una fortunata trasmissione televisiva su rai tre "la domanda sorge spontanea": che avrebbero combinato gli americani a Mosca dopo i cinque ori di Montreal quattro anni prima. Sempre difficile da dire, certo pugili del calibro di Curry, Sandoval, Taylor, Bumphus, Manley, Shuler, Murphy quasi sicuramente sarebbero potuti andare a medaglia. Di che colore...bah? E soprattutto visto che ci riguarda più da vicino: Johnny Bumphus nei superleggeri avrebbe potuto impensierire il nostro Patrizio Oliva? L'americano era un superlativo dilettante con 341+ 16- , alto 1.83 (fisicamente simile a Hearns ma solo fisicamente), due volte campione nazionale, era un pugile scomodo d'affrontare, altissimo per la categoria e con un insidiosissimo allungo ma resta un esercizio inutile parlare di una cosa di cui non ci può essere mai la controprova. Va detto che Oliva sostenne un olimpiade straordinaria, designato anche miglior pugile assoluto del torneo, mettendo in fila pugili del calibro del kazako Serik Konakbajev, sconfitto in finale, allora sotto la bandiera sovietica, quindi pugile di casa, due volte campione europeo e anche vice campione mondiale (1982), che era uscito vincitore da una semifinale spettacolare contro il cubano Josè Aguilar. Ottimi avversari erano anche il britannico Tony Willis, sconfitto in semifinale dal nostro e il macedone Ace Rusevski allora jugoslavo superato ai quarti senza non poche difficoltà. Oliva e Bumphus pur rimanendo entrambi nei superleggeri tra i professionisti non s'incontrarono mai ed in pratica conquistarono lo stesso titolo: Superleggeri WBA, ma come spesso accadeva allora gli americani arrivavano più in fretta a battersi per il titolo, quest'ultimo lo conquisterà nel 1984 e quando un paio d'anni dopo lo conquisterà l'italiano, Bumphus era salito nei welter.
Due curiosità Robert Shannon che aveva vinto i trials nei minimosca nel 1980, allora diciottenne decise di rimanere altri quattro anni dilettante per tentare di nuovo per Los Angeles 1984 e ci riuscì, nei gallo questa volta dove presentandosi tra i favoriti venne clamorosamente sconfitto al secondo turno dal coreano Kil-Moon Seung per ko al terzo round, quando stava dominando il match. Categoria dove poi trionfò un altro nostro grande pugile: Maurizio Stecca. Per Shannon ci sarà poca gloria anche nei professionisti. Mentre lo sconfitto dei trials per Mosca nei mediomassimi Elmer Martin non fece mai il grande salto preferendo rimanere nella marina e fare la carriera militare. (Dedicherò in futuro un post d'approfondimento sulle edizioni olimpiche e mondiali del periodo di riferimento)
 

martedì 6 dicembre 2016

Leon Spinks v/s Alfio Righetti

Las Vegas - 18 novembre 1977

 
 
Nel Nevada, al Caesar Palace Di Las Vegas  quella sera di metà novembre si disputò l'incontro tra il predestinato pugile americano Leon Spinks e il nostro campione italiano dei pesi massimi Alfio Righetti. In palio non c'era la cintura di nessun titolo, ma questo match valeva tantissimo: in palio c'era Alì......


Leon Spinks nasce a St.Louis l' 11 luglio 1953 ed è nel Missouri che inizia a diventare un pugile.
Dilettante formidabile, tre volte campione nazionale '74-'-75-'76, è medaglia di bronzo nella prima edizione dei campionati mondiali dilettanti a L'Avana 1974 e nel 1975 è medaglia d'argento ai giochi panamericani del 1975, ma il suo capolavoro lo compie alle olimpiadi di Montreal 1976 dove vince la medaglia d'oro dei pesi mediomassimi. A riportarsi a casa la medaglia d'oro in quella rassegna olimpica ci fu' anche il fratello, quel fuoriclasse di Michael, di tre anni più giovane, che vinse nei medi. Leon Con un record impressionante di 178+ (133ko) 7-, il 15 gennaio 1977 esordisce professionista con una rapida vittoria per ko. Non è un errore di trascrittura ma Spinks quando salì sul ring del Caesar Palace di Las Vegas per un match che poteva dargli la possibilità di combattere per il titolo mondiale dei pesi massimi WBA e WBC non aveva ancora terminato il suo primo anno da professionista. Ma lui era un predestinato ed anzi se non ci fosse stato un piccolo intoppo nella sua breve carriera da pro non avrebbe neanche avuto bisogno di superare questo ostacolo per battersi per il titolo. Infatti dopo l'esordio vincente in quel 1977 di vittorie prima del limite ne arrivarono altre quattro ma il 22 ottobre contro il roccioso connazionale Scott Le Doux, arrivò un pareggio che lasciò non molte perplessità. Le Doux era comunque un buon massimo, discreto picchiatore con un record allora di 21+ (13ko) 6- (3ko), galleggiò poi, tra più alti e che bassi sempre tra i  primi dieci posti delle classifiche mondiali della categoria di quegli anni, tanto da guadagnarsi tre anni dopo la sfida del mondiale WBC, dove trovo la paletta dello stop alzata e perse prima del limite con un grandissimo peso massimo degli anni ottanta: Larry Holmes.
Ma per l'ex caporale dei marines Leon Spinks, che aveva prestato tre anni dal 1973 al 1976 nel prestigioso corpo militare americano, prima di passare professionista, era arrivato il tempo di raccolto, dopo aver seminato tanta gloria nei dilettanti. Con Le Doux poteva essere stata una serata storta ed ora bastava abbattere quest'italiano, a lui sconosciuto, e presentarsi all'incasso con un match del calibro di una leggenda vivente come Ali'....Ma l'italiano Alfio Righetti aveva attraversato l'oceano con gli stessi pensieri e propositi, bisognava liberarsi di questo giovanotto americano, spaccone, borioso e ritenuto sopravalutato e poi incontrare in un match che sarebbe, con qualsiasi risultato finale, diventato indimenticabile.

 
 Alfio Righetti nasce a Montecolombo in provincia di Forlì il 18 settembre 1952 e dopo un periodo da dilettante senza grandi acuti passa professionista il 18 maggio 1974 con una vittoria prima del limite. Nel 1974 altre quattro vittorie. Nel 1975 saranno otto le vittorie e nel 1976 ancora nove successi e i suoi match fanno da sottoclou a due titoli europei il primo il 4 giugno 1976 a Milano dove il povero Angelo Jacobucci conquista il titolo europeo dei pesi medi sconfiggendo ai punti il britannico di origine giamaicana Bunny Sterling. Lo sfortunato pugile di Terracina morirà per le conseguenze di un incontro durissimo perso contro un altro britannico: Alan Minter, nel tentativo di riprendersi quel titolo europeo che aveva perso alla prima difesa. Il secondo per Righetti a Roma quando il caraibico di cittadinanza britannica Maurice Hope, sconfisse il nostro Vito Antuofermo per kot alla quindicesima ripresa (vedi post precedente). E cosi a ventiquattro anni, imbattuto con ventidue vittorie (13 ko) il 5 marzo 1977 conquista il titolo italiano ai punti contro il corregionale Dante Cané di dodici anni più vecchio. Non un fenomeno ma un beniamino nazionale, che due anni prima aveva fallito il tentativo europeo, sconfitto per ko dal britannico Joe Bugner (vi ricorderete il biondo enorme che faceva la parte del cattivo in un paio di film di Bud Spencer), e che da dieci anni era ai vertici nazionali e dopo questo match, quasi due anni dopo, con una striscia di un pareggio e tre vittorie si guadagnerà una nuova sfida europea. Sfortunata anche questa dove finirà ko alla quarta ripresa con il detentore lo spagnolo di origine uruguaiana Alfredo Evangelista. Righetti con questa vittoria e con quella precedente contro un altro beniamino nazionale (si sa nella boxe i massimi si prendono tutta al scena, un po' come gli attaccanti nel calcio) Giuseppe "detto Bepi" Ros, trevigiano, trentaquattro anni, con una discreta carriera ma che era ormai sulla via del tramonto, Righetti aveva affermato la sua supremazia nazionale. L'altro giovane peso massimo emergente Lorenzo Zanon era stato messo un po' in ombra dalla sconfitta nel titolo italiano con Cané (di Zanon ci occuperemo in seguito).
Il fresco titolo italiano conquistato nella primavera del 1977 andava stretto ad Alfio Righetti che lasciò dopo averlo difeso una volta nel maggio di quello stesso anno. Rocco Agostino uno dei più importanti manager italiani ed europei dell'epoca aveva per primo intuito le potenzialità di questo colosso romagnolo. Tre vittorie nel giugno, settembre e ottobre con tre avversari, un britannico e due americani,, niente di particolarmente irresistibile, ma nomi esotici che creavano appeal e due si erano svolti in un palcoscenico importante come Roma avevano portato a 27+ (14ko) il suo record e avevano condotto Righetti su quell' aereo direzione Las Vegas che poteva diventare una testa di ponte contro un obiettivo più grande, l'ultimo ostacolo tra lui e la gloria......
Prima di passare all'incontro in questione bisogna fare una doverosa premessa e raccontare come si era arrivati a questa semifinale mondiale che in realtà non era ufficiale perché le semifinali ufficiali si disputavano sui 12 round e questo era sui 10. Era il frutto di un accordo  tra Bob Arum, uno dei due padri-padroni della boxe USA dell'epoca e quindi mondiale, (l'altro era Don King), Rocco Agostino e i manager di Leon Spinks.
Ali' che nel 1977 aveva trentacinque anni, più lento e appesantito, non era quel formidabile campione di qualche anno prima. Le voci su un suo possibile ritiro si rincorrevano sempre più frequenti ed Arum voleva cercare di monetizzare ancora al massimo ogni possibile incontro, perché poteva essere l'ultimo di  una carriera da leggenda.
A questo punto permettetemi una digressione personale: in questo blog non troverete mai un post su Muhammad Ali', ma solo brevi cenni di riflesso ad integrare qualche altro incontro in questione. Perché? Perché per parlare di Ali' ci vogliono i "titoli", non è che io ne abbia per parlare di fuoriclasse come Ray Leonard, Tommy Hearns, Marvin Hagler, Mike Tyson, Roy Jones, Julio Cesar Chavez, Evander Holyfield e tanti altri, ci mancherebbe, ma è una questione di pudore personale. Ali è diventato campione mondiale la prima volta battendo Sonny Liston quando io ero nato da due giorni, con Sugar Ray Leonard ad esempio è diverso, lo conoscevo che era ancora un dilettante, quando trionfo' nei superleggeri alle olimipiadi Montreal 1976, e ne ho seguito la carriera professionistica, con i limiti dell'informazione di allora, fin dal primo incontro. E' come per un ragazzo nato nel 1990 parlare di Maradona e di Messi.
Torniamo ora alla vicenda in questione. Come scritto Alì era a caccia di qualche ultimo "comodo" avversario e Agostino aveva fatto un capolavoro. Infatti era riuscito ad accordarsi con l'entourage di Alì per una difesa volontaria contro il nostro Alfio Righetti. Clamoroso! Immaginatevi cosa poteva essere allora per un italiano battersi per il titolo mondiale dei pesi massimi contro Muhammad Ali, la leggenda. Ma Bob Arum a cui spettava il compito di organizzarlo, tirare fuori la grana insomma, aveva più di una perplessità. Gli piaceva quel ragazzone romagnolo che aveva più di una caratteristica per entusiasmare gli sportivi americani, era imbattuto, aitante, ideale per interpretare la parte del duro in un film, e soprattutto ne aveva un'altra molto apprezzata nei pesi massimi: era bianco.......Infatti quello della "speranza bianca" parola deontologicamente assurda oggi, era un tormentone nato nei primi anni del 1900, quando Jack Johnson, figlio di schiavi affrancati del profondo sud, aveva avuto l'ardire di non accontentarsi del campionato mondiale dei massimi riservato ai pugili di colore, ma di conquistare anche quello assoluto. Quel Johnson non era ossequioso, non stava al posto suo, era sfrontato, borioso, sperperava i soldi, inaccettabile agli occhi beceri dell'opinione pubblica dell'epoca e andava punito. E fecero ed inventarono di tutto per strappargli quel titolo che imprudentemente gli avevano dato lo possibilità di conquistare. E così nacque il detto "speranza bianca", cioè quel pugile in grado di spazzare via lo "zio tom" campione di turno. Certo con Ali' le cose erano cambiate, troppo carismatico, universale, lui era il campione di tutti, ma chi ha avuto la fortuna di vedere il film: "quando eravamo re" non può essergli sfuggita la scena in cui Ali' circondato d'ammiratori, filmava autografi, quando si rivolge ad uomo a cui ha appena firmato l'autografo "Ehi tu hai figli?" . Questi annuisce "si, uno piccolo". E Ali' "e gli dirai quando crescerà che quest'autografo te l'ha firmato un negro!" - "Un negro che è il più grande pugile di tutti i tempi!". L'ammiratore visibilmente imbarazzato nell'allontanarsi e con voce tremolante "si...si...certo campione...!" Alì era troppo intelligente per non capire che dietro la facciata entusiastica di tutti, in maniera latente c'era sempre in America dove i pugili afroamericani erano la maggioranza ma demograficamente nel paese sempre una netta e discriminata minoranza, la voglia di vedere cadere un campione dei massimi di colore ,ed anche se quel pugile era straniero, non era poi così importante.
Ma a Bob Arum di discriminazioni sociali interessava il giusto, proclami da dare in pasto ai giornalisti per confezionare un prodotto vincente, lui era un business-man, il suo compito era organizzare l'evento, elargire una lauta borsa ad Ali', il giusto al suo contendente e avere un ritorno economico il più possibile elevato.
E Righetti non lo convinceva appieno, non da un punto di vista tecnico, ma non aveva ancora quel profilo adatto per uno come Ali'. La prima volta fuori dall'Italia, neanche un titolo europeo da esibire e un record accattivante ma con una percentuale del 50% di ko che se fosse stata vicino al 100% si poteva esibire con più enfasi. Era Spinks il pugile ideale per Alì, campione olimpico, ancora digiuno di professionismo e giudicato "comodo" per un eventuale chiusura con il botto della carriera di una leggenda. Ma Leon aveva rovinato tutto con quel pareggio con Le Doux, il primo pugile vero affrontato che un campione prossimo alla sfida con Ali' doveva spedire agevolmente al tappeto.
Ed allora arrivò l'idea che avrebbe messo tutti d'accordo, perché non far affrontare Spinks a Righetti in una semifinale per il titolo mondiale, che ufficiale non poteva essere, perché quelle ufficiale, poco frequenti, avvenivano quando c'era incertezza su chi fosse il numero uno della classifica e sfidante ufficiale al titolo e non era questo il caso perché nessuno dei due era ai vertici, ma che importava, quando era di dominio pubblico che chi avesse prevalso si sarebbe battuto con Ali', lo era a tutti gli effetti.
Per vedere il match cliccare www.youtube/Leon Spinks vs Alfio Righetti.




Spinks incontrò poi Ali e sappiamo tutti cosa avvenne, mentre Righetti con grande rammarico salì su l'aereo che l'avrebbe riportato a casa, convinto, pur disputando un buon match, che avrebbe potuto fare di più' e di essersi fatto sfuggire quel treno che può passare una sola volta nella vita. Per Rocco Agostino fu' uno dei più grandi rimpianti della sua gloriosa carriera di manager. A chiunque giornalista gli chiedesse di tornare su quel match fino agli ultimi giorni della sua vita (è morto la notte di natale del 2005) era solito ripetere che lui aveva fatto un capolavoro ad aver portato Righetti su quel ring, e che il romagnolo avrebbe potuto vincere: "al secondo round Spinks era groggy, ma Righetti invece di chiudere si fermo a vedere l'effetto che fa....e poi perse ai punti!" Ma il grande limite di Righetti, un po' mascherato dall'affetto di Agostino, era quello dell'assoluta mancanza di potenza nei pugni, cosa letale per un massimo e vengono alla mente le parole di Jack Jackson che nel deridere i suoi avversari affermava "Un peso massimo senza il colpo da ko è come una scimmia che non sa arrampicarsi sugli alberi"
Righetti dopo quel match tornò a combattere in Italia, l' America divenne un miraggio e non ebbe neanche la possibilità di sfruttare l'inerzia del buon match con il futuro campione mondiale dei pesi massimi perché la stella di Spinks nel 1978  non fece a tempo ad accendersi che con la stessa rapidità di spense...
Ma di Righetti torneremo a scrivere quando un paio d'anni dopo, in un tarda serata estiva tornò ad accendere il cuore degli italiani in un derby nazionale per il titolo europeo, con il campione in carica Lorenzo Zanon.

APPENDICE - Aver citato due volte il grande peso massimo d'inizio secolo Jack Jackson "The Galveston Giant" non può non farmi soffermare brevemente su questo straordinario personaggio. Nato a Galveston, Texas, il 31 marzo 1878, da genitori ex schiavi liberati dopo la guerra civile, conobbe un infanzia poverissima, lascio in tenera età la scuola per fare i più disparati lavori. Si avvicino alla boxe dopo essere passato per le "royal battle", incontri clandestini organizzati per mero divertimento, dove giravano ingenti somme di denaro in scommesse e dove due uomini di colore si picchiavano quasi e a volte anche fino alla morte ed al vincitore come ricompensa venivano tirati i soldi sull'arena, in segno d'apprezzamento. Arrivò a diventare campione mondiale dei pesi massimi, dopo che per anni, pur essendo riconosciuto il migliore della sua categoria non gli venne mai data l'occasione per battersi per il titolo. Il 26 dicembre 1908 finalmente arrivò l'occasione, in Australia, a Sidney dove un imprenditore locale era rimasto impressionato da Johnson che un anno prima aveva steso per ko due forti pugili australiani. L'imprenditore in questione decise di rispondere all'appello del campione mondiale dell'epoca, il canadese Tommy Burns "The Little Giant" che in maniera del tutto provocatoria aveva sempre affermato, quando gli si chiedeva il perché non affrontasse Johnson, che sarebbe stato un match inutile, senza storia, un bianco contro un nero, troppo più forte lui e che lo avrebbe affrontato solo per un compenso di 30.000 dollari. Un cifra assurda, più una provocazione che realtà, un'enormità, che si pensava che mai nessuno avrebbe sborsato. Ma invece quel giorno di Santo Stefano di 108 anni fa l'assegno arrivò nelle tasche di Burns e la cintura di campione avvolse i fianchi di  Johnson. Delle sue stravaganze che tanto infastidivano i "ben pensanti" americani abbiamo già accennato ma in realtà c'era in lui anche tanta rabbia repressa dopo anni di umiliazioni che lo portava ad essere così, atteggiamento che tra l'altro infastidiva anche i suoi colleghi, pugili di colore che lo chiamavano il campione mondiale nero-bianco. Jack Johnson era semianalfabeta ma era una persona molto intelligente. Certo amava il suo stile di vita ma c'era anche tanta voglia di provocare come a dire. "ehi ragazzo guardami, sono un negro, guido un automobile, vesto elegantissimo, ho le tasche piene di soldi da permettermi quello che voglio e al mio fianco c'è una donna bianca bellissima che tu non puoi neanche sperare un giorno di potergli dire solo buongiorno!"
A questo punto voglio soffermarmi brevemente su due match dei tanti che il gigante di Galveston sostenne nella sua carriera da pugile. Arrivarono in successione a dieci mesi di distanza tra il 1909 ed il 1910.
Il primo si disputò il 16 ottobre del 1909 e il suo avversario era altrettanto straordinario, si trattava di Stanislaw Kiecal alias Stanley Ketchel "The Michigan Assassin". Ketchel era nato a Grand Rapids, Michigan il 14 settembre 1886, figlio d'immigrati polacchi. All'epoca dell'incontro aveva da poco compiuto ventitré anni ma aveva già lasciato un segno indelebile nella boxe mondiale. Peso medio naturale, in questa categoria era diventato campione mondiale e suoi incontri con un altro fuoriclasse dell'epoca: Billy Papke "The Illinois Thunderbolt" erano gia' entrati nella storia per spettacolarità e sopratutto violenza e ferocia con la quale si erano battuti i due contendenti. Picchiatore tremendo, senza paura, aveva accettato di combattere per il campionato mondiale dei pesi massimi. Cercò di irrobustirsi e di prendere peso, cosa che gli riusciva più facilmente dato il suo stile di vita sregolato. E così nell'autunno del 1909 alla Mission Street Arena, Colma, California,  Ketchel invece che l'abituale vestaglia da boxer si presentò per ingannare il pubblico presente con un cappottone nero di parecchie taglie superiori alle sue, sembrava un bambino a cui i genitori hanno acquistato un capo d'abbigliamento che gli deve star bene per parecchi anni a venire. E calzava anche scarpette speciali che gli permettevano di guadagnare qualche centimetro in altezza. Ma quando rimase a torso nudo in pantaloncini le differenze fisiche tra i due erano spropositate in favore di Jackson, era un incontro impari, improponibile.....Per dieci round non accadde nulla di rilevante con il campione stranamente abulico e che usava il jab per tenere a distanza lo sfidante e che di tanto in tanto tirava qualche sventolaccia dalla distanza tanto per far desistire Ketchel da qualsiasi possibile tentativo di accorciare e con quest'ultimo inspiegabilmente passivo, privo della sua abituale aggressività, appariva timido, cauto, come ipnotizzato dal gigante che gli si parava davanti. Ma all'undicesimo round il match si accese. Johnson improvvisamente aumento il ritmo e colpì più volte duramente Ketchel che subì un atterramento ed un taglio profondo che aveva trasformato la sua faccia in una maschera di sangue. Fini il round sull'orlo del ko. C'è un episodio in questa undicesima ripresa che racchiude tutta l'essenza dell'incontro. Ketchel in evidente difficoltà tenta disperatamente più volte di legare per bloccare le braccia di Johnson, quando quest'ultimo infastidito dall'atteggiamento fin troppo permissivo dell'arbitro, che non richiamava Ketchel, per scrollarserlo di dosso lo sposta di lato alzandolo da terra con estrema facilità, come un adulto che prende in braccio un bambino. Ed era questa la grandissima differenza tra i due che rendeva il match improponibile, la grande differenza di forza fisica, aldilà dei centimetri ed il peso nettamente a vantaggio di Johnson. Il dodicesimo round iniziò nel silenzio generale del pubblico, preuccupato per Ketchel e con Johnson che forzava ancora il ritmo e colpiva di nuovo duro Ketchel, il ko era nell'aria, ancora pochi secondi e tutto sarebbe finito. Ed effettivamente tutto finì in pochi secondi, ed in una manciata di secondi avvenne una delle scene più spettacolari della storia della boxe e che fece riconoscere a questo incontro il venticinquesimo posto nella classifica assoluta dei match del secolo dal settimanale "The Ring". Ketchel improvvisamente colpi d'incontro alla nuca Johnson, una bordata terribile accentuata dal movimento in avanti del campione. Il gigante di Galveston tra lo stupore generale crollò a terra. Si era scateno' l'inferno. Il pubblico ammutolito, ormai rassegnato all'imminente sconfitta del proprio beniamino sembrava impazzito. Johnson visibilmente in difficolta a fatica riuscì' a rialzarsi mentre l'arbitro eseguiva il conteggio e con Ketchel appena dietro, pronto ad infliggere il colpo decisivo lo fissava, col volto sanguinante e con ghigno satanico stampato sul viso. Johnson era ancora visibilmente scosso ma pronto a riprendere la lotta. Ketchel era si un peso medio ma possedeva una tale potenza nei colpi che non solo poteva abbattere un peso massimo, poteva abbattere un toro! E proprio in toro infuriato quel colpo aveva trasformato il suo avversario che appena ricevuto l'ok dall'arbitro si lancio su di lui come una belva. Johnson travolse Ketchel e con un micidiale serie di colpi ed un diretto destro finale, spaventoso, che lo fece stramazzare a terra, esanime, come travolto da un treno in corsa. Johnson colpì con talmente tanta veemenza che nello slancio cadde anche lui a terra. Questa volta era Ketchel a subire il conteggio, tra la delusione ed un silenzio totale del pubblico e con il campione che ancora non aveva completamente recuperato dal colpo precedente, in precario equilibrio si teneva saldamente alle corde. Ma di contare Ketchel non ce n'era più assolutamente bisogno, era a terra in uno stato semi cosciente che non gli fece neanche sentire il ko gridato dall'arbitro e gli ci vollero parecchi minuti per riprendersi. In seguito si scrisse che i due clan si fossero accordati segretamente per una "tranquilla" vittoria ai punti in venti round (allora non esisteva ancora un regolamento specifico su quante riprese si disputasse un incontro di boxe, il numero veniva stabilito da un accordo tra i pugili e i manager in questione), una soluzione di comodo per entrambi e che avrebbe lasciato la strada aperta ad una ben remunerata rivincita. Ed infatti la sensazione che si ha nei primi dieci round, ma poi Johnson infastidito dall'avere avuto più di una volta la sensazione che Ketchel volesse fare il furbo decise di non rispettare l'accordo. Ma furono solo voci mai provate nei fatti. Cosi come risultò poi essere falso il fatto, che per molti anni a venire tenne banco, il quale voleva che Ketchel avesse anche tentato questa assurda avventura perché voleva eguagliare il leggendario britannico Bob Fitzmmons nella conquista del titolo mondiale in tre categorie diverse. Ma non era vero perché si, aveva in precedenza battuto, sempre nel 1909 Joseph Francis Hagan alias "Philadelphia" Jack O'Brien, allora campione dei mediomassimi, due volte per ko, in un occasione con il titolo in palio ma non era lui che aveva tentato la scalata alla categoria superiore ma O'Brien che era sceso per battersi nei medi. Di fatto lo si poteva ritenere anche campione dei mediomassimi ma nella realtà non lo divenne mai. Si era ancora agli albori della boxe e questo può aver ingannato più di qualche giornalista divenendo poi come una cosa accertata, ma falsa. Non c'era granchè di romanticismo nello spingere Ketchel ad affrontare il gigante di Galveston, ma soltanto la voglia d'intascare una cospicua borsa.
Il secondo incontro avvenne a distanza di dieci mesi, nel luglio del 1910, e ricorda la vicenda del film "Il Gladiatore" quando l'imperatore Commodo (Jason Phoenix) non sa più quali pesci prendere per far morire "legalmente" nell'arena l'odiato Massimo Decimo Meridio (Russell Crove) alias "Il Gladiatore" e fa tornare dalla Gallia a cinque anni dal suo ritiro dai combattimenti l'imbattuto e imbattibile Tigris. Ebbene questo avvenne in America nel 1910 ma ad invocare il ritorno sul ring
dell'ex campione mondiali dei pesi massimi James J. Jeffries, non era un imperatore ma un'intera nazione. James Jackson Jeffries come il personaggio di fantasia Tigris si era ritirato da cinque anni  imbattuto e con il titolo mondiale in suo possesso. Era amato e idolatrato come avviene oggi. Si era sempre rifiutato di combattere con Johnson quando era il campione, assumendo, e facendo scuola, lo stesso atteggiamento sprezzante del suo successore: Tommy Burns. La leggenda narra che Johnson si recasse spesso a San Francisco nella sede del Campionato Mondiale Pesi Massimi (era una federazione a parte), che era una taverna, un pub (che spettacolo!) per lamentarsi con i dirigenti del perché non gli dissero la possibilità di battersi per il titolo. Un giorno c'era tra gli avventori a bere qualche boccale di birra con degli amici Jeffries in persona, che non visto da Johnson attese in silenzio che finisse di parlare e poi si alzò spiegandogli che per lui non avrebbe avuto senso fare quel match, che ne avrebbe guadagnato, un pugno di mosche che lui non combatteva per riempirsi le tasche di mosche e poi aggiunse che se aveva tanta voglia di battersi con lui potevano scendere nello scantinato solo loro due e chi sarebbe risalito da quelle scale sarebbe stato il campione del mondo. Johnson in un primo momento accettò tra le urla di gioia dei presenti che speravano di poter sbirciare da qualche fessura, ma che poi ritenendosi un pugile professionista e che fare a botte con Jeffries fosse una cosa inutile e assurda, si rifiutò, e deriso da tutti, fissò il campione per qualche secondo, con gli occhi pieni d'odio come volesse aggredirlo lì davanti a tutti e con Jeffries che sosteneva lo sguardo come a dire "dai ragazzo...dai!" Se andò poi sbattendo la porta, urlando che sul ring dovevano battersi, se ne aveva il coraggio, solo sul ring.
Sulla fine delle prima decade del novecento Jeffries che aveva varcato la trentina, era ormai un ricco proprietario terriero, ingrassato a dismisura, che non aveva completamente lasciato il mondo della boxe divenendo un arbitro (cosa molto frequente allora per gli ex-pugili). Ma per gli occhi della gente era ancora lui il campione mondiale dei pesi massimi, una leggenda vivente, stampa, appassionati, tutti insomma invocavano un suo ritorno sul ring per mettere a posto quello sfrontato di Johnson. Perfino il grande scrittore e anche giornalista: Jack London si era scomodato scrivendo: "Jim Jeffries deve emergere dalla sua fattoria di erba medica e togliere per sempre il sorriso d'oro dal volto di Jack Johnson". Ma Jeffries di tornare sul ring non ne aveva assolutamente voglia. E dove fallirono gl'ideali vinse il dio denaro. Infatti dopo aver rifiutato qualsiasi offerta per affrontare Johnson ne arrivò una che non poté rifiutare: 120.000 dollari di montepremi al netto delle commissioni, 70.000 al vincitore e 50.000 allo sconfitto, una mostruosità a quell'epoca. E cosi Jeffries tornò' ad allenarsi. A modo suo. Lui che si era sempre sottoposto a regimi di allenamento tremendi e che quando era al massimo della forma con 1.87m x 102kg, si raccontava corresse le 100 yards (91m) in poco più di 11 secondi e che era in grado di saltare oltre il metro e ottanta. La data dell'incontro fu' fissata per il 4 luglio 1910, "L Independence Day" non a caso e fu' il secondo match a ricevere l'etichetta di "match del secolo" (ne arriveranno tanti altri) e anche passato alla storia come "la battaglia dei giganti". Tutti termini inventati dall'organizzatore Tex Richard che in questa occasione sarà anche l'arbitro. E non era più una lotta tra due uomini era una lotta interrazziale. E Jeffries stette al gioco gettando ancor più benzina sul fuoco quando nei giorni precedenti l'incontro dichiarò "che lui non era tornato sul ring né per il titolo e né per i soldi, ma che era tornato sul ring per ribadire ancora una volta la supremazia della razza bianca su quella nera". Ma era solo un atteggiamento di facciata perché Jeffries dimostrerà poi che oltre ad essere un grande pugile era anche un grande uomo. Il match originariamente previsto a San Francisco non ottenne l'avallo del governatore della California, dove la boxe era ancora proibita ed in fretta e furia la sede si spostò nel Nevada a Reno. In una città blindata, si temevano disordini e sommosse popolari tanto che i due pugili furono scortati dall'esercito nei giorni precedenti l'incontro, tutto era ormai pronto, si contavano i minuti. Ed il fatidico giorno arrivò, Jeffries aveva perso 40 chili e nonostante che da sei anni non salisse sul ring sembrava ancora in perfetta forma. Ma tutte le attese vennero tradite, tanto rumore per nulla. Non ci fu' storia, dopo un inizio in qualche modo equilibrato, dalla quinta ripresa in poi Johnson prese nettamente il sopravvento e diede l'impressione che avrebbe potuto terminare la contesa in qualsiasi momento avesse voluto. Al quindicesimo round, dei quarantacinque previsti (45!!!!!) ci fu' l'epilogo. Jeffries colpito duramente finì al tappeto una prima volta, poi immediatamente una seconda, si rialzo scosso e malfermo sulle gambe aiutato a rialzarsi dai secondi e giornalisti saliti arbitrariamente sul ring. Qualche secondo per ripristinare l'ordine e sgomberare il ring, che Johnson intenzionato a chiudere si lanciò come una belva su Jeffries e di nuovo lo mise al tappeto, di nuovo gente sul ring a cercare di rimettere in piedi lo sfidante, ma era inutile, era evidente che per Jeffries era finita. E mentre l'arbitro decretava la fine i secondi erano pronti a gettare la spugna per evitare ulteriori e pericolosi colpi al proprio assistito. Kot al quindicesimo round. Johnson aveva sgomberato ogni dubbio su chi fosse il numero uno. E Jeffries ammise nel dopo match che Johnson era un grandissimo campione e che con lui avrebbe perso anche quando anni prima era al massimo delle potenzialità, spegnendo cosi sul nascere ogni eventuale teoria che lui avesse vinto solo perché era ormai finito. Ma non riuscì a spengere la rabbia di quei beceri che si scatenarono poi. Appena la notizia si diffuse in tutta la nazione, e si seppe che a vincere era stato Johnson, in molte città degli Stati Uniti si verificarono pestaggi, anche mortali sulla popolazione di colore, magari perché avevano manifestato la loro gioia nell'apprendere la notizia, veri e propri squadroni della morte che perlustravano i ghetti e massacravano di botte qualunque nero incontrassero con la polizia che a fatica riusciva ad evitare i linciaggi.
Alla fine dell'assurda nottata i morti furono dieci e i feriti tantissimi.
Per Johnson quella vittoria fu' apoteosi ma dove non si riusciva sul ring si tento di detronizzarlo con la legge. Johnson accusato di un crimine assurdo fuggì dagli Stati Uniti per evitare il carcere e rimase in esilio per cinque anni dove non venne decaduto perché quel titolo lo doveva perdere con un bianco e sul ring e che difese due volte in Francia e una volta in Argentina. Con la promessa di un condono accetto di combattere per il titolo con Jess Willard, un gigante di due metri, texano, che aveva sempre fatto il cow-boy e che in preda all'alcol nel fine settimana si divertiva a spaccare la faccia a chiunque osasse sfidarlo (coraggioso o folle perché anche se ubriaco non si può' affrontare un tipo così), arrivato tardi alla boxe, accettando il suggerimento di gli diceva che visto che gli piaceva tanto combattere era meglio farlo per soldi e che era considerato in quel periodo il più forte massimo in circolazione A L'Avana il 5 maggio 1915 Johnson "finalmente" venne sconfitto per ko e detronizzato, alla ventiseiesima ripresa. Ci sono stati sempre dubbi sulla regolarità di questo match, si scrisse che Johnson per ottenere il condono e tornare da uomo libero nella sua nazione fu' costretto a perdere. Certo la foto che ha immortalato per sempre l'attimo in cui ormai a terra contato dall'arbitro, con le braccia alzate sembra coprirsi gli occhi dal sole, gesto troppo strano e sospetto per un pugile esanime, non ha fatto che alimentare questi dubbi. La versione ufficiale è sempre stata che era il riflesso incondizionato di un uomo privo di lucidità che non rendendosi conto di cosa gli accadesse in torno aveva alzato le braccia in segno di disperata difesa. Mah....????
Jack Johnson per poter permettersi il suo stile di vita che amava tanto combatté fino a età avanzatissima, dovunque il suo nome richiamasse ancora, trascinandosi in incontri ufficiali che per rispetto del campione alcuni sono spariti dal suo record, sconfitte con pugili anonimi e dall'anonima carriera. E' comunque per sempre ricordato come un grande campione, a suo modo rivoluzionò la boxe, specie nei massimi. Era se vogliamo in un certo modo già un pugile moderno, il suo stile era fatto di continua mobilità nel busto, schivate millimetriche e terribili colpi di rimessa, approccio sornione alternato a improvvisi cambi di ritmo, dava la sensazione di essere in difficoltà per incitare all'attacco senza prudenza il suo avversario per poi sorprenderlo e atterrarlo con velocissime combinazioni letali. E a lui s'ispirarono dichiarandolo apertamente parecchi campioni negli anni a venire. Poi arriverà qualcuno cinquant'anni dopo che cambierà la storia dimostrando che un massimo non poteva muoversi sul busto come un medio ma che un massimo sul ring poteva danzare come Nureyev (non credo ci sia bisogno di citare chi fosse.......) 
Johnson morì a sessantotto anni in un incidente stradale, tradito da quelle auto che tanto aveva amato per tutta la vita. Anche Billy Papke, il terribile avversario di Ketchel, e che dopo che questi aveva lasciato il titolo dei medi se ne rimpadronì saldamente, mori suicida una volta ritiratosi, senza motivi apparenti A cinquant'anni anni, nel 1936 si sparo un colpo alla testa, dopo aver ucciso la moglie che gli dormiva a fianco. Si scrisse che i terribili colpi subiti in carriera ne avessero minato irrimediabilmente  la salute mentale.
E anche Stanley Ketchel morì tragicamente. Ventisei anni prima di Papke, quasi esattamente un anno dopo il match con Johnson, ad appena ventiquattro anni. Era andato a Conway, Missouri a passare qualche giorno di riposo, in un ranch di proprietà un suo amico-ammiratore: il miliardario Rollin.P. Dickerson, stava tranquillamente facendo una passeggiata nella tenuta quando vide un maniscalco picchiare un cavallo che era ostile a farsi strigliare, Ketchel che amava gli animali, lo apostrofò pesantemente, minacciandolo che se l'avesse rifatto lo avrebbe pestato a sangue. Questi era Walter Kurz, da pochi giorni assunto insieme alla moglie, una testacalda che sicuramente aveva sentito parlare del famoso campione di boxe Stanley Ketchel ma che come la maggior parte della popolazione non sapeva che faccia avesse, pensò bene (anzi malissimo) di non rimandare ad una prossima volta e sfidò Stanley a pugni, salvo ritrovandosi dopo pochi secondi a terra, con il viso sanguinante e tumefatto, tra le risate generali dei presenti. Il giorno dopo Kurz che meditava vendetta sorprese Ketchel che stava facendo colazione gli sparò un colpo di fucile alle spalle. A quel punto la moglie Goldie Smith, l'unica persona presente al fatto, velocemente gli frugò le tasche, gli rubò il portafogli e lo consegno al marito, che si diede alla fuga promettendogli di rivedersi quella stessa notte in un punto prestabilito per fuggire insieme, mentre lei si dileguava nell'angolo più lontano della casa prima che la sala si riempisse dalle persone attirate dal rumore dello sparo. Ma Ketchel non era morto e in un attimo di lucidità fece il nome della cameriera ad un caposquadra che era accorso, era agonizzante ma il cuore batteva ancora. Il suo amico Dickerson affittò un intero treno, tutto per lui, nel tentativo di farlo arrivare all'ospedale di Springfield ma fù inutile Ketchel morì durante il viaggio. Nel frattempo la cameriera interrogata dallo sceriffo dichiarò che Ketchel stava cercando di violentarla quando irruppe il marito attirato dalle sue grida e tentò di aiutarla quando Ketchel lo massacrò di nuovo di botte ed in preda all'ira aveva estratto la pistola per ucciderli entrambi e che Kurz era stato rapido a prendere il fucile e sparare al campione e che poi in preda al panico era fuggito. Certo il carattere irruento di Ketchel si conosceva, e girare armato non era una cosa così insolita ma sembrava strano che un uomo con nelle mani un fucile vedendo la moglie aggredita lo appoggiasse da qualche parte per affrontare un altro che meno di ventiquattrore prima lo aveva pestato a sangue e che poi quest'ultimo tenendolo sotto minaccia pronto a sparare con una pistola gli voltasse le spalle permettendogli di prendere l'arma lì nei paraggi. E c'era anche la faccenda del portafoglio e messa alle strette confesso: Walter Kurz non era suo marito, anzi non era neanche molto che stavano insieme e si chiamava in realtà Walter Dipley, e che lei si era prestata ad aiutarlo perché minacciata, ma che non sapeva che lui volesse ucciderlo ma soltanto rapinarlo. Si scoprì che Dipley, all'epoca era un ex marinaio congedato con disonore, un balordo, un ladro e a questo punto anche un assassino e che vagabondava in cerca di un impiego presentando generalità false, per poi rubare quello che poteva e sparire. Si scatenò una caccia all'uomo e Dickerson promise 5000 dollari a chiunque desse informazioni utili sul fuggitivo. Ormai braccato venne arrestato il giorno dopo e al processo i due amanti diabolici vennero condannati entrambi all'ergastolo ma poi in un secondo processo la versione della donna, che aveva agito sotto minacce venne accettata e uscì di prigione dopo due anni. Dipley uscì invece dopo grazie ad uno sconto della pena, ventitré anni dopo, nel 1933 e si sa solo che morì nel 1956 e la sua vita inutile non sarebbe mai giunta ai disonori della gloria se non avesse vigliaccamente ucciso uno dei più forti pugili d'inizio novecento e che a soli ventiquattro anni tanto ancora avrebbe potuto dare al pugilato, allo sport. Cosi quel soprannome così enfatico ma puramente sportivo "l'assassino del Michigan" portò alla fine sfortuna a Stanley Ketchel.

Jack Johnson
 
Stanley Ketchel
 

James J. Jeffries

Billy Papke
Philadelphia Jack O'Brien


Jess Willard
 

venerdì 25 novembre 2016

Eckhard Dagge v/s Rocky Mattioli

Mondiale Superwelter WBA
Berlino - 6 agosto 1978
 
 
Alla DeutschlandHalle di Berlino nell'estate del 1978 andò in scena il match valido per il titolo mondiale dei pesi superwelter tra il campione: il tedesco Eckhard Dagge e lo sfidante: l'italiano d'Australia Rocco "Rocky" Mattioli. Il nostro Rocky era un picchiatore, un duro, si era formato pugilisticamente in Australia dove spesso i match si trasformano in bagarre, "scazzottate" terribili, sul  modello centro-sudamericano. Ma il campione era anche lui un tipetto vivace, non molto facile da lasciarsi intimidire, lui proveniva dai "street fight". 
 
Eckhard Dagge era nato in Germania il 27 febbraio 1948, a Probsteinhagen, piccolo comune del nord della Germania, vicino Kiel. Arrivato relativamente tardi alla boxe "ufficiale", passato prima per i combattimenti clandestini nei pub e nelle taverne di Amburgo dove notato da qualcuno, vicino alla boxe fu deciso a convogliare tutta quella ferocia e violenza in un sport nobile e vero. Dilettante d'interesse nazionale nel 1971 rappresento la Germania Ovest ai campionati europei di Madrid, finendo eliminato agli ottavi dal "cugino" della Germania Est. Manfred Wolke, poi medaglia d'argento. Non riuscì ad ottenere la convocazione per le olimpiadi di Monaco 1972 trovando la strada sbarrata sia nei superwelter che nei medi da due mostri sacri della boxe dilettantistica tedesca. Il primo Gunther Maier, bronzo quattro anni prima a Citta del Messico e fermatosi ai piedi del podio (quarti) a Monaco ed il secondo Dieter Kottysch che alla terza partecipazione olimpica vincerà addirittura l'oro nella rassegna tedesca. Ma erano già dei trentenni che non passeranno mai professionisti . Dagge con un buon record (66+ 14-) si tolse la canottiera il 2 marzo 1973 bagnò l'esordio da professionista con una vittoria per ko alla prima ripresa. Dopo una striscia vincente di 13 incontri (9 ko), di cui l'undicesima con l'americano Denny Moyer, ai punti dopo un'aspra battaglia, sui dieci round. Moyer che era stato in precedenza campione mondiale WBA dei superwelter, due anni prima aveva sfidato, a Roma, addirittura un fenomeno come Carlos Monzon che era campione mondiale dei medi WBA e WBC, finendo kot alla quinta ripresa, cosa quasi normale se si combatteva con l'argentino. E l'ultima con un altro l'americano quel Billy Backus, che era stato campione mondiale dei welter. Al dire al vero in un periodo di flessione, ma che poi si riprenderà fino a guadagnarsi una nuova sfida mondiale, con Pipino Cuevas (vedi post precedente). Questa due vittorie "vere" appena un anno e mezzo dopo il suo passaggio nei pro gli diedero il lustro per guadagnarsi la possibilità di combattere per il titolo di campione europeo superwelter, affrontando a Berlino il detentore, lo spagnolo Jose Manuel Duran, ottimo pugile di 31 anni che anche se proveniva da una terra mai troppo generosa con il pugilato, aveva un record importante di 52+ 2-. Era un ostacolo difficile per Dagge, che non riuscì a superare, perdendo prima del limite, kot all'undicesima ripresa. Con la mancata conquista dell'europeo se ne andò anche l'imbattibilità. Il tedesco volò negli Stati Uniti per affinare le lagune tecniche messe a nudo nel match con lo spagnolo e per un periodo si allenò con Eddie Futch, allenatore molto famoso all'epoca. Sotto le sue cure erano passati pugili formidabili del calibro di Joe Frazier e Ken Norton e tanti altri. A cavallo tra il '75 e il '76 tornò saltuariamente in Germania, per degli incontri e sostenne altri tre match vincendone due e perdendone uno, e nove mesi dopo dall'incontro europeo, la cura Futch fece i suoi effetti ed il 24 giugno 1975 si prese la rivincita sul forte spagnolo, che veniva da una sconfitta ai punti nel suo primo tentativo mondiale (titolo vacante dei superwelter WBC) del 7 maggio 1975 a Montecarlo contro il fortissimo brasiliano Miguel De Oliveira e che per non rischiare di essere dichiarato decaduto dall'EBU si era affrettato a difendere il titolo europeo contro Dagge un mese e mezzo dopo. Questa volta fu' Duran a perdere per kot alla nona ripresa e a cedere al tedesco il titolo europeo dei superwelter. Lo spagnolo nonostante le due sconfitte ravvicinate non era affatto in declino, visto che un anno dopo il 18 maggio del 1976 si andrà a prendere il titolo mondiale superwelter WBA, mettendo ko a Tokyo, il pugile di casa, il campione in carica Koichi Wajima . Dagge difese una prima volta il titolo europeo il 4 novembre 1975 vincendo agevolmente per kot al settimo round contro l'austriaco Franz Csandl, che si presentava con ottime credenziali ed un record di 22+ 1-, unica sconfitta  patita ai punti, nel suo primo tentativo europeo contro Josè Manuel Duran, dieci mesi prima. Dagge venne sconfitto alla seconda difesa, ai punti dal nostro Vito Antuofermo, altro incredibile personaggio del mondo della boxe, l'italiano di Brooklyn, di cui non si può non parlare in futuro. Al rientro dopo una vittoria per ko contro il maliano di passaporto francese Marcel Giordanella, arrivò addirittura la possibilità di battersi per il tiolo mondiale superwelter WBC, contro il campione, il fortissimo Elisha Obed, pugile delle Bahamas, ventiquatrenne, alla terza difesa, con un record impressionante di 63+ 1-, sconfitta patita peraltro a inizio carriera e che era considerato unanimamente il numero uno mondiale della categoria. Obed aveva attraversato l'oceano con la ferma convinzione di disporre a piacimento dello sfidante tedesco, era dato per favoritissimo, ma il 18 giugno del 1976 sempre a Berlino (Dagge sostenne tutta la sua carriera in Germania e quasi sempre combatte' a Berlino), finì, tra lo stupore e l'entusiasmo generale kot alla decima ripresa contro questo roccioso pugile che sembrava un prodotto delle acciaierie della Rhur. Tre mesi dopo, il 18 settembre 1976, la prima difesa del titolo per Dagge fu' con un pugile di grande nome internazionale, l'americano Emile Griffith , trentotto anni, che era ormai l'ombra del campionissimo che aveva infiammato le notti italiane e del mondo intero con una triplice sfida da leggenda, quasi dieci anni prima, contro il nostro immenso Nino Benvenuti. Ma quello che doveva essere poco più di un "galà" per Dagge rischiò di trasformarsi in un incubo. Faticò non poco a venirne a capo, il vecchio leone americano aveva sentito l'odore del sangue, rispondendo colpo su colpo al tedesco, di dieci anni più giovane e che alla fine la spuntò con un verdetto non unanime e mantenne la corona. Alla seconda difesa, il 15 marzo 1977, sempre nella sua Berlino, mantenne il titolo strappando un pareggio contro il forte Maurice Hope, ventisei anni, 20+ (18ko) 2- (1ko), di origine caraibica, ma di nazionalità britannica, campione europeo, che aveva strappato il titolo a Vito Antuofermo per kot 15 round, cinque mesi prima all' allora Palaeur, oggi Palalottomatica. Pareggio che non lascio non molte perplessità sull'operato dei giudici, niente di scandaloso, diciamo un po' casalinghi nel giudizio, e che permisero a Dagge di tenersi ancora il titolo e che lanciò anche le prospettive del forte pugile britannico, che picchiava come un fabbro e che scriverà un paio d'anni dopo, pagine esaltanti ma anche un po' tristi per la nostra boxe (ne parleremo in seguito). Un primo capitolo come scritto sopra l'aveva già completato: con Antuofermo. Ma Dagge era un duro e le critiche che gli erano piovute addosso dopo i match con Griffith e  Hope gli rimbalzavano, ma anche il suo avversario non era da meno, il nostro Rocky che aveva attraversato le alpi per sfidarlo, cresciuto nella terra dei canguri era una "roccia".


Rocco Mattioli nasce il 20 settembre 1953 a Ripa Teatina, paese abruzzese in provincia di Chieti ma quando aveva sei anni i genitori erano migrati in Australia precisamente a Melbourne dove è cresciuto e cominciato a praticare la boxe. Il suo paese d'origine era lo stesso, dove era nato, il padre, poi emigrato negli Stati Uniti, di un grandissimo campione mondiale dei pesi massimi, una leggenda come Rocco Francis Marchegiano alias Rocky Marciano. E proprio il nome Rocco gli era stato dato in onore dell'illustre italoamericano, che ha sempre combattuto per i colori statunitensi, ma che affondava le radici nel piccolo centro abruzzese. E' quindi fu' naturale ereditare il nome di battaglia "Rocky", nome che non pesò sulle sue forti spalle e che porto con onore. Iniziò a combattere come dilettante nel 1966, a 13 anni e nel 1969 vinse il titolo statale di Victoria nei pesi welter qualificandosi per il campionato nazionale dove sempre nei welter venne sconfitto in finale. A 16 anni e mezzo il 9 marzo 1970 esordì tra i professionisti, vincendo per ko. Tre anni dopo il 17 maggio 1973 non ancora ventenne con una striscia di 22 vittorie (17ko) 2 sconfitte (0ko) conquisto il titolo australiano dei  pesi welter spedendo al tappeto il campione nazionale Jeff White (26+ 8-), non un fulmine di guerra, ma più maturo, più esperto e tosto come tutti i pugili australiani, che era stato campione nazionale dei piuma e dei leggeri ma che aveva fallito due volte la salita al titolo del Commonwealth. Il match con Mattioli fu' l'ultimo della sua carriera, evidentemente i duri colpi di Rocky gli fecero capire che era il  momento di dire stop con la boxe. Mattioli non difese mai il titolo abbandonandolo immediatamente e nei due anni a seguire disputò 12 incontri vincendone 11 (7ko) e nell'unica sconfitta fu' vittima della sfortuna, in vantaggio ai punti dopo un duro match con il neozelandese Alì Akafasi il titolo dell'Australasia dei pesi welter venne fermato per ferita e dichiarato sconfitto al tredicesimo round. Allora non era come oggi, che di sarebbe andati alla lettura dei cartellini dei giudici al momento dell'interruzione. Quindi con le regole di oggi Mattioli avrebbe vinto. Ma proprio nell'ultimo della striscia in questione, mise ko l'americano Billy Backus, di cui abbiamo già scritto (vedi post precedente e parte del post dedicata a Dagge). E proprio per assistere a questo match era volato dall'Italia uno dei manager più importanti del vecchio continente: Umberto Branchini, che impressionato dalle doti di questo picchiatore di origini italiane aveva deciso di ottenerne la procura, convinto che adeguatamente assistito sarebbe arrivato in breve ai massimi livelli della boxe mondiale.
E cosi Rocky Mattioli il 9 maggio 1975 non ancora ventitreenne torno in Italia, per sostenere il primo match di una nuova carriera, facendo quel percorso inverso che la sua famiglia aveva fatto 17 anni prima, in fondo anche lui in cerca di fortuna come i suoi genitori, perché in Australia era già molto conosciuto ma nel nostro paese s'ignoravano quasi completamente le sue gesta sportive. In Italia in un mese sostenne due incontri, entrambi a Milano, che furono due agevoli ko (quella di sostenere incontri a distanza ravvicinata è sempre stata una costante di Rocky Mattioli, evidentemente aveva bisogno di tenere il fisico sempre in tensione, senza prendersi periodi di pausa troppo lunghi). Tra agosto e settembre 1975 ritornò in Australia per disputare altri due match, probabilmente per onorare contratti già siglati con i vecchi manager. Vinse il primo per ko ma nel secondo ne uscì sconfitto ai punti contro l'americano Harold Weston (17+ 6-) che il record fa storcere un po' il naso ma che dopo un inizio carriera non esaltante stava incominciando a infilare una striscia di vittorie importanti che lo porteranno a battersi due volte per il titolo mondiale. Una prima volta welter WBA, marzo 1978 sconfitto per intervento medico dopo una dura battaglia, da Pipino Cuevas (vedi post precedente) e esattamente un anno dopo perse ai punti nell'altra federazione mondiale, WBC, sempre nei welter con un fuoriclasse come Wilfredo Benitez. Fu' questo con Weston l'ultimo match "australiano" nella prima parte della carriera di Rocky. Lasciatosi alle spalle la sconfitta ripartì per l'Italia, come italiano e vinse tre match (2 ko) ma fu' il pareggio che strappò nel quarto che gli diede la definitiva consacrazione, contro un vera e propria leggenda vivente della boxe italiana: Bruno Arcari. Il 3 aprile 1976, a Milano dopo dieci combatutissime riprese. Il verdetto di parità premio entrambi i pugili. Per Bruno Arcari di undici anni più vecchio, che era stato campione mondiale superleggeri WBC dal '70 al '74 (con nove difese vincenti, titolo lasciato vacante per passare nella categoria welter) fu' uno degli ultimi match di una carriera esaltante mentre per Rocky Mattioli fu' il trampolino che lo lanciò verso traguardi prestigiosi, una sorta di passaggio del testimone tra due grandi pugili italiani. Arrivarono poi sette match, tutti vinti prima del limite e che lo proiettarono a questa sfida mondiale con Eckhard Dagge.
Era ormai tutto pronto alla Deutschlandhalle di Berlino in quell'estate del 1978, il campione tedesco, più alto 1,83 (altezza notevole per la categoria), duro fighter con 20+(14ko) 3-(1ko) era pronto a domare questo torello italoaustraliano, più basso 1.69, di cinque anni più giovane, ma che aveva disputato più del doppio dei suoi incontri 47+(36ko) 4-(1ko) e che picchiava come un martello e aveva attraversato le alpi con la ferma convinzione di riportarsi in Italia quel titolo che era stato di due grandissimi connazionali: Nino Benvenuti e Sandro Mazzinghi.
Nonostante le grandi premesse non ci fu' diretta televisiva in Italia e la cosa suscitò non poche polemiche, ed è per questo, forse, che di questo match non esistono video su youtube. All'inizio avevo pensato dal desistere dal raccontare questo match, per scrivere di Rocky Mattioli, potevo declinare su qualcun altro, ma questo era diverso, c'era quel fascino dell'italiano che va' all'estero per conquistare il titolo mondiale, contro il pugile di casa. Così nella disperata ricerca nel web di un video, anche semplici highlits, mi sono imbattuto in questa cronaca tratta dal sito boxeringweb.it, e cosi ho deciso di riprodurla fedelmente tralasciando la presentazione. Buona lettura:

                  "Eckhard Dagge è un buon pugile, in possesso di
        un sinistro davvero pericoloso, che viene da due 
        vittorie eclatanti contro Elisha Obed ed Emil 
        Griffith. Ma non possiede la grinta di Rocky. Il
        6 agosto, il match mondiale si materializza senza
        la presenza della tv italiana, e la cosa fa parecchio
        discutere. Mattioli mette subito in mostra
        un bagaglio tecnico superiore al tedesco. Si muove 
        magistralmente sul tronco, punzecchia Dagge
        a suo piacimento, si vede che l'italiano è in gran
        spolvero.
        Nel secondo round Dagge "pesca" lo sfidante con un
        duro montante che Rocky incassa con disinvoltura,
        l'episodio instilla sicurezza nel campione che si
        convince che i suoi colpi duri possono fare
        breccia su Rocky.
        Nella terza ripresa è sempre Mattioli a menare
        la danza,e Dagge cerca con il diretto destro
        di arginare l'avanzata dell'abruzzese.
        E' però Mattioli che raccoglie un'ovazione sul
        finire del round. Alcune schivate millimitriche
        raccolgono applausi anche da parte dei tedeschi.
        Nel quarto round Mattioli aumenta
        il ritmo e negli occhi di Dagge s'intravede una 
        trepidazione allarmante. Tre colpi doppiati dello 
        sfidante fanno arretrare vistosamente il campione.
        La quinta ripresa è quella decisiva. Mattioli inizia
        il round in modo forsennato e Dagge va in difficolta
        I colpi arrivano e non li vede come all'inizio. 
        Soprattutto non vede una combinazione sinistro-destro
        che si abbatte sulla sua mascella come un ciclone e
        lo stende al tappeto. Il famoso arbitro californiano 
        Richard Steele inizia il conteggio lentamente,
        ma Dagge non ha più risorse. Tenta di rialzarsi ma
        non ce la fa...è ko. Rocky Mattioli è il nuovo
        campione del mondo WBC dei superwelter, ed il
        6 agosto 1977 diventa una data da non dimenticare
        per il pugilato italiano."


  


Che spettacolo, poche pennellate bastano a definire un quadro d'autore. sembra di essere alla Deutschlandhalle di Berlino, tensione che si taglia con il coltello, si percepisce l'adrenalina, l'attesa spasmodica, urla d'incitamento, trepidazione, suona il gong del primo round, silenzio, il rumore secco del guantone che colpisce l'avversario, il boato del pubblico, che spettacolo. Solo chi ha vissuto la boxe così, può capire, che quando non c'era la diretta televisiva di un incontro e non si poteva, poi, ricorrere a youtube, come oggi, c'erano solo queste cronache a raccontarci come era andato veramente l'incontro. Grandi professionisti che ci permettevano d'immaginare di vivere il match in maniera esaustiva e completa. .
Per Echard Dagge fu' l'inizio della fine della sua vita da pugile professionista. Torno dopo appena quattro mesi, forse anche con la ferma convinzione che il match con Rocky era stato un incidente di percorso e di tornare in breve a battersi ad alti livelli. Vinse in maniera promettente per ko e si ripete' con altre due vittorie nella primavera del 1978 (un ko), ma evidentemente cominciò a prendere consapevolezza che il meglio era ormai sfuggito via. Dagge era allora in Germania, un personaggio, ricco e molto stimato e così dopo l'incontro del 6 maggio 1978 decise di ritirarsi dalla boxe professionistica.
Ma tre anni dopo, in preda a gravissimi problemi economici, dovette rivedere la sua decisione e reinfilarsi di nuovo tra le corde del ring (la storia di molti pugili purtroppo). Sostenne quattro incontri nel 1981, vincendo i primi tre (uno per  ko) ma uscendo sconfitto per kot alla seconda ripresa, nell'ultimo contro il ventenne britannico Brian Anderson (20+ 2-), buon pugile dalla buona carriera, ma che non andrà oltre il titolo del Commonwealth e che uscirà sempre sconfitto dal confronto con i migliori pugili britannici della categoria. E' con questa sconfitta si chiude definitivamente la storia pugilistica di Eckhard Dagge. Certo fu' un campione ma non certamente un campionissimo, non ci sarà mai per lui un posto nella hall of fame, ma fu' sempre il primo tedesco a conquistare un titolo mondiale dopo una leggenda come Max Schmeling e stiamo parlando di più di quarant'anni prima. In un periodo dove la boxe professionistica in Germania non era così popolare come lo è oggi, si riteneva troppo cruenta e violenta al cospetto della purezza di quella dilettantistica, era in qualche modo latente l'influenza della confinante sorella Germania Est ed aveva anche forte presa sull'opinione pubblica la linea di pensiero perbenista del nord nei paesi scandinavi, da sempre esempio di pura democrazia, dove in Danimarca la situazione era la stessa che in  Germania ma in Svezia ad esempio era addirittura proibita in assoluto. In pugili professionisti non erano molti. Spesso i migliori dilettanti, anche se importanti prospetti decidevano di  restarlo a vita "accontentandosi" di partecipare alle olimpiadi, ai mondiali, agli europei ecc.ecc. Ma era un atteggiamento di facciata perché la boxe era sempre piaciuta ai tedeschi ecco spiegati i pienoni ai match di Dagge. Il seme per germogliare aveva solo bisogno delle giuste condizioni atmosferiche. Ma poi il mondo cambiò, le due Germanie si riunificarono e la boxe professionistica fu' "moralmente sdoganata" e di campioni mondiali ne arrivarono molti altri ed Eckhard Dagge può essere considerato a pieno titolo come il loro apripista. Per il nostro Rocky fu' l'apoteosi, aveva preso il cuore di tutti gli italiani, era l'unico campione mondiale in carica di quel periodo, uno degli sportivi in assoluto più amati.
Ma si sa le vita è fatta di alti e bassi, si sale e si scende e anche per il nostro Rocky arriverà purtroppo il momento della discesa......ma ne scriveremo in seguito.

APPENDICE - Spulciando il record di Elisha Obed su boxrec mi sono imbattuto in una storia incredibile, degna di essere raccontata in un film, nota come: "Il mistero Kid Carew" . Già di per se la storia pugilistica di Obed è parecchio affascinante. Nato a Nassau (Bahamas) il 21 febbraio 1952, battezzato come Everett Osvald Ferguson, ma ricordato con il nome di battaglia Elisha Obed. A dodici anni iniziò a combattere come dilettante e dopo una striscia di 46 vittorie consecutive (14ko), a quindici anni debuttò come professionista: il 15 settembre 1967. Certo le vittorie da dilettante erano tutti match disputati alle Bahamas, non certamente match olimpici, mondiali... ma sicuramente combattuti con pugili più grandi di età e più esperti, specie all'inizio. Sapientemente amministrato la sua carriera proseguì spedìta come un missile, sempre con match organizzati alle Bahamas, dove i suoi avversari cadevano inesorabilmente sotto i suoi colpi e dove era presto divenuto un grande orgoglio nazionale. Cominciò anche ad affacciarsi negli Stati Uniti dove il 21 gennaio 1975, a  Miami, conquistò il titolo NABF (North American Boxe Federation) spedendo ko il canadese Fernand Marcotte, buon pugile con un record di 33+ (21ko) 3- (1ko). Altre sei vittorie, tutte per ko nel 1975 lo proiettarono al titolo mondiale WBC dei superwelter. A Parigi il 13 novembre 1975 mise ko il campione in carica, il brasiliano Miguel De Oliveira 43+ (28ko) 1- (0ko) e a 23 anni salì in cima mondo. Obed allora aveva grandissima considerazione, si immaginava per lui un futuro da superstar. E aveva un record assoluto, unico nella storia della boxe: era l'unico pugile mai sconfitto nella sua carriera, dilettanti compreso e poco importava se nel suo record da pro c'erano due pareggi, non aveva mai perso, punto. E su questa storia il suo entourage alimentava ed elogiava tutte le doti del loro fortissimo amministrato. Ma era tutto troppo bello per essere vero. Ed è qui che entra in ballo il mistero Kid Carew. Infatti un vecchio ritaglio di un giornale sportivo di otto anni prima, un po' ingiallito, ma ancora abbastanza nitido, era arrivato nelle mani di un giornalista.  L'articolo in questione era in realtà' una foto. Una foto che immortalava un pugile a terra nel momento in cui l'arbitro interrompeva il match decretando il ko. E a corollario una didascalia, ancora abbastanza leggibile che citava: il veterano Carew sconfigge per ko alla seconda ripresa il giovanissimo Obed. Apriti cielo, non c'era l'informazione globale di oggi, ma ben presto il ritaglio arrivò nelle mani di tutte le redazioni sportive americane. All'inizio il clan Obed, negò appellandosi all'omonimia, e continuò a negare anche quando gli si faceva notare la "sospetta" somiglianza del loro assistito con quella del pugile a terra. E continuarono a negare, il loro pugile, il loro campione era imbattuto e non aveva mai perso in vita sua. Ma ormai i segugi erano stati sguinzagliati, cominciarono a spuntare i testimoni. Infatti chiunque gravitasse nel mondo della boxe alle Bahamas in quel periodo sapeva benissimo della sconfitta di Obed ma taceva per rispetto di quell'illustre connazionale che così in alto stava portando il nome dell'arcipelago caraibico. Ma si sa davanti all'offerta di qualche centinaio di dollari "l'interesse nazionale" passa in secondo piano e la lingua si scioglie più facilmente, i fondo si raccontava la verità. E quando il numero di testimoni pronto a giurare su quella sconfitta per ko crebbe, alla fine arrivò la confessione: quel pugile che era andato ko al secondo round contro lo sconosciuto Kid Carew era l'attuale campione mondiale WBC dei superwelter Elisha Obed. Cosa era successo, quando la carriera da predestinato di Obed, aveva cominciato a prendere quella forma sperata, macinando vittorie, Elisha era pronto alla conquista dell'America. E quell'unica sconfitta, patita anni prima, ad inizio carriera, bruciava, andando ad intaccare l'imbattibilità, che se si considera il periodo da dilettante era addirittura assoluta. Così quell'unica sconfitta che aveva sempre figurato nel record di Elisha, sparì magicamente, grazie a qualche dirigente della boxe bahamense diciamo cosi "accomodante". E da imbattuto Obed arrivò a combattere negli Sati Uniti, arrivando poi al titolo mondiale. Ma chi era quel pugile sconosciuto che aveva messo ko il campione mondiale: Kid Carew era nato a Nassau, quindi concittadino di Obed, l'ultimo giorno del 1926. A quasi ventidue anni non aveva mai messo piede in una palestra in vita sua, faceva il marinaio civile, imbarcato a contratto nei pescherecci bahamensi. Nel 1948 si trovava a Port-of-Spain (Trinidae & Tobago) ed era andato a vedere una riunione di pugilato, quando lo speaker dell'evento tra lo stupore generale annunciò se ci fosse qualcuno tra il pubblico, disposto a sostituire un pugile assente all'ultimo momento per un incontro sulle quattro riprese, promettendo una buona offerta di denaro. Tra il silenzio generale, si trattava di combattere con un professionista, non un campione ma sempre un professionista,  Kid allettato dalla possibilità d'intascare qualche dollaro non si preoccupo troppo delle possibili conseguenze  (facile immaginarlo come un giovanotto facilmente incline a menare le mani con chiunque), si alzò e si offrì. Velocemente si recò negli spogliatoi, indossò pantaloncini e guantoni e quando arrivò il suo turno salì sul ring e in breve mise ko l'avversario, vincendo alla prima ripresa. Nel dopo match fecero gara ad offrirgli da bere e tutti, compreso il suo sventurato oppositore, gli consigliarono di fare il pugile. Lui accettò questo prezioso consiglio, ma lo fece a modo suo. Infatti lo fece come un secondo lavoro, continuando a fare il marittimo, qualche apparizione in palestra, appena gli era possibile, per imparare i rudimenti e per i diciannove anni successivi combatte' in giro per i Caraibi: Cuba, Trindad, St.Kitts, Haiti e naturalmente Bahamas, ovunque ci fosse la possibilità di guadagnare qualche soldo, così tanto per arrotondare. Match ufficiali (probabilmente anche qualcuno non), di cui si sono persi le tracce e non figurano nel suo record. E con questo spirito che l'11 dicembre 1967 a venti giorni dal suo quarantunesimo compleanno, era salito sul ring del Boxing Stadium di Nassau per affrontare questo ragazzino di quindici anni, di cui si parlava un gran bene, con un seguito da superstar, ma che aveva spedito ko al secondo round dopo averlo atterato già una volta nello stessa ripresa. Non poteva immaginare che quel ragazzino sarebbe diventato anni dopo campione mondiale. Intascato i soldi della borsa sparì di nuovo in mare.
E non lo saprà mai.....
Infatti Kid Carew,  morì dopo pochi mesi da quell'incontro, per le conseguenze di un'esplosione a bordo della nave dove era imbarcato nei primi mesi del 1968. Per questo non si era presentato a reclamare la sua fetta di gloria quando il suo nome era diventato improvvisamente famoso.
E' la prima volta che mi capita di leggere di un match prima presente e poi magicamente sparito dal record di un pugile. A volte è successo d'incontri sfortunati come quello di Mattioli con Ali Akafasi, interrotti per intervento medico per via di una ferita pericolosa, trasformati in maniera "benevola", (magari per non sporcare il record di qualche pugile emergente) in no-contest.
Ad un fatto analogo, non riuscito per la verità,  mi capitò di assistere personalmente in Italia precisamente a Milano, quando Vincenzo Edward Pazienza al secolo Vinny Pazienza, nato a Cranston (Rhode Island) il 16 dicembre 1962 ma di chiarissime origine italiane, con un record di 13+ (11ko) era stato convinto a combattere in Italia, con la speranza di ripetere le operazioni vincenti di Mattioli e Antuofermo. Le cose cominciarono bene e al primo incontro mise kot alla terza ripresa, a Riva del Garda, il 17 novembre 1984, Bruno Simili, che era stato un discreto pugile, e aveva in precedenza fallito due volte la conquista del titolo italiano, la prima contro Patrizio Oliva!!!! (e dico il nostro grande Patrizio Oliva, non uno qualunque, di cui non si può non scrivere in futuro) e la seconda con il forte Giuseppe Martinese (che in precedenza era stato campione europeo). Bruno Simili, a dire il vero, era in quel momento della carriera in una fase di forte ribasso. Ma quindici giorni dopo avvenne il fattaccio. Infatti il primo dicembre 1984 al Palasport di Milano, contro il marocchino di nazionalità francese Abdelkader Marbi 14+ (6ko) 3- (2ko), Pazienza stava facendo un match nel suo stile, infatti con Vinny "Pazmaniac" non ci annoiava mai e con l'avversario che si stava dimostrando un buon pugile, più ostico del previsto, perfettamente a suo agio nello stile rissaiolo imposto dal "nostro" Vinny e che rispondeva colpo su colpo. Durante il terzo round, Marbi che aveva l'abitudine pericolosa di andare avanti con la testa colpì duro con la fronte, in maniera sospetta Pazienza aprendogli un ampio taglio sul sopracciglio sinistro. L'arbitro interruppe immediatamente l'incontro richiedendo l'intervento del medico, che in questa prima chiamata diede il via libera a Vinny e giudicò involontaria la testata non ammonendo neanche il franco-marocchino. Pazienza a quel punto impaurito dall'ipotesi di arresto del combattimento e quindi dichiarato sconfitto, aumentò notevolmente il ritmo chiuse bene la terza ripresa e si aggiudicò nettamente la quarta colpendo duro il suo avversario. Nell'intervallo il grande Lou Duva, allenatore e manager di Pazienza, cosi come aveva fatto alla fine della terza cercava disperatamente di risistemare al meglio la ferita che perdeva copiosamente sangue. La quinta ripresa iniziò come era finita quella precedente con Pazienza che caricava come un toro e con Marbi che cercava di rispondere al meglio colpo su colpo  ma che veniva di nuovo colpito duro e accusava notevolmente. Sembrava che da un momento all'altro potesse arrivare il colpo decisivo da parte di Pazienza quando a metà ripresa arrivò prima l'arbitro che invitò di nuovo il medico a salire sul ring che questa volta non pote' esimersi dal fermare il match. Per Vinny si erano materializzati i suoi incubi peggiori. Si scateno l'inferno. Pazienza dopo aver fatto due-tre giri del ring per la disperazione inveendo contro il mondo intero, si lanciò contro il medico, dapprima spiegando in maniera animosa le sue ragioni a che solo il tempestivo intervento di Duva, a trattenere lo scatenato assistito evitò l'imminente passaggio a vie di fatto. E stessa cosa voleva fare il padre di Vinny, assistente all'angolo del figlio, anch'esso trattenuto a malapena da un altro uomo d'angolo di Pazienza perchè voleva aggredire a sua volta il medico, che appena possibile sgattaiolo fuori dal ring visibilmente spaventato da questi due pazzi scatenati. Non c'era modo di far tornare la calma sul ring neanche dopo l'intervento della sicurezza. Duva uomo di grande esperienza cercava di far ragionare Vinny che era una belva, ma che stava rischiando se non si fosse in qualche modo calmato non solo di perdere l'imbattibilità ma di compromettere per sempre la sua carriera. Tentò la via della diplomazia suggerendo la squalifica di Marbi per testata volontaria, ma non si poteva punire il franco-marocchino per un fatto avvenuto due round prima e giudicato in quel momento fortuito. Invocò allora il no-contest e quindi annullamento del  match, per comportamento antisportivo dell'avversario, neanche lui ci stava a veder sporcare il record di Vinny. Ma era una concessione impossibile per lo stesso motivo soprascritto. Allora il regolamento non permetteva la lettura dei cartellini come oggi, che sarebbe stato un paracadute fantastico in questa situazione. Per un momento non si capì più nulla, ci furono frenetiche consultazioni al tavolo della giuria, sembrava che la vecchia volpe di Duva l'avesse spuntata, si vociferava che i giudici erano favorevoli al no-contest e questo aveva calmato per un attimo i due scatenati italoamericani. Ma il regolamento gli legava le mani e a loro malincuore non poterono non decretare, parecchi minuti dopo l'interruzione, la vittoria per intervento medico alla quinta ripresa di Marbi, tra spaventosi boati di disapprovazione e fischi assordanti del pubblico presente al palasport di Milano che in blocco si era schierato per Vinny. Si riaccese il parapiglia e Pazienza e suo padre furono allontanati a fatica dal ring. Se ne andarono sbattendo la porta e se ne tornarono in America. Pazienza non diventò mai italiano e continuò a combattere per i colori degli Stati Uniti. E se non ci fosse messa la sfortuna e quel carattere bollente, l'operazione anche in questo caso sarebbe stata vincente perché anche Vinny Pazienza diventerà in futuro campione mondiale. Consiglio di vedere su youtube sia l'incontro con Bruno Simili che quello con Marbi e di fermarsi qui per il momento perché in futuro non si può non tornare a scrivere di Pazmaniac.......